La Cina al G20 sull'Afghanistan pensa per sé

Giulia Pompili

Pechino dispensa consigli alle riunioni internazionali ma poi lavora per riconoscere i talebani prima degli altri

Nonostante l’investimento diplomatico dell’Italia per organizzare la riunione straordinaria dei leader del G20 sull’Afghanistan, e nonostante l'ottimismo di Palazzo Chigi, l’evento è passato un po’ in sordina, anzitutto perché i leader non c’erano, non tutti almeno. Sia la Russia sia la Cina, principali attori che vorrebbero essere riconosciuti come potenze stabilizzatrici dell’area, hanno fatto collegare alla riunione online i loro inviati speciali: rispettivamente Zamir Kabulov, rappresentante speciale del presidente Vladimir Putin, e Wang Yi, ministro degli Esteri di Pechino con delega all’Afghanistan (che a luglio aveva incontrato una delegazione di talebani a Tianjin). Contemporaneamente in Cina, nella città di Kunming, il leader Xi Jinping inaugurava la Cop15, l’assemblea delle Nazioni Unite sulla biodiversità (un’altra cosa rispetto alla Cop26 sul clima prevista a fine ottobre a Glasgow). In Italia invece, a Sorrento, si svolgeva nelle stesse ore il G20 sul Commercio, presenziato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e con la partecipazione della ministra del Commercio americano Katherine Tai: una riunione molto operativa che aveva sul tavolo un argomento prioritario per molte cancellerie internazionali, e cioè la riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio. 

 

 Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha detto che la riunione di ieri è stata “la prima risposta multilaterale alla crisi dell’Afghanistan” e che tutti i paesi sono d’accordo sul dover intervenire  “sotto la regia dell’Onu”. Ma ci si può fidare della Cina, il paese in questo momento più coinvolto nella regione centroasiatica? Secondo quanto riportato dalla Cgtn cinese, Wang ha presentato ieri “una proposta in quattro punti su come affrontare la crisi umanitaria e il terrorismo in Afghanistan”. La prima soluzione di Pechino è l’intervento economico: Wang ha ripetuto la promessa di 31 milioni di dollari già fatta, però, il mese scorso (molto meno dei trecento milioni promessi da Joe Biden e dal “miliardo di dollari” dell’Ue), ha chiesto di abolire le sanzioni  contro Kabul  e poi ha “suggerito” alla comunità internazionale di approcciarsi “in modo razionale e pragmatico” in quello che ha definito “un nuovo capitolo” della storia afghana: “Imporre l’ideologia e l’intervento militare e intervenire negli affari interni altrui porterà solo a turbolenze  e a  disastri umanitari”. L’espressione è quella che Pechino ripete di continuo, quando vengono denunciate le sue violazioni dello stato di diritto, delle regole internazionali e dei diritti umani. E infatti, come prevedibile, da parte di Wang c’è stato un riferimento alle “potenze” che dovrebbero “assumersi le responsabilità” del disastro afghano, ma non c’è stato alcun riferimento alle brutalità talebane, anzi.

 

La conferenza stampa del presidente Draghi dopo la riunione sull'Afghanistan (LaPresse)
  
Ideologicamente, la Cina usa il palcoscenico internazionale per mandare sempre lo stesso messaggio: l’America è ancora quella potenza imperialista che fa danni, e finalmente ora Pechino può arrivare in vostro soccorso. Rispondendo a una domanda della Bbc, ieri in conferenza stampa Draghi ha detto che “il riconoscimento del governo dei talebani è una decisione politica, che sarà presa solo quando noi, cioè la comunità internazionale, saremo certi che alle parole dei talebani corrispondano i fatti”, e cioè che garantiscano le libertà individuali dei cittadini, l’inclusività delle minoranze, i diritti delle donne. Ma la Cina, che chiude la sua minoranza musulmana nei campi di lavoro nella regione dello Xinjiang, ha altri piani. Secondo almeno due diverse fonti diplomatiche del Foglio, già da qualche settimana Pechino starebbe facendo pressioni su “otto, dieci paesi” nell’orbita cinese per il riconoscimento coordinato e contemporaneo del regime dei talebani. Non si tratta di paesi del G20, ma di paesi in via di sviluppo influenti nelle rispettive regioni. 

 
La Cina promuove da tempo un’interpretazione molto diversa dalla nostra riguardo all’universalità dei diritti umani, e questo potrebbe essere un problema nel coordinamento multilaterale evocato da Draghi. Anche perché i movimenti e le riunioni delle ultime settimane portano sempre lì, a una nuova strategica alleanza per l’Afghanistan composta anche dagli outsider del G20: Mosca ha convocato per il 20 ottobre un vertice nella capitale russa dove saranno presenti Cina, Pakistan, Iran (e forse l’India). A metà settembre si erano già riuniti in Tajikistan i membri della Shanghai Cooperation Organisation, formazione politica a guida sinorussa a cui partecipano anche Kazakistan, Kyrgyzistan, Tajikistan, Uzbekistan, India, Pakistan, Iran, Bielorussia e Mongolia. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.