Scordiamoci Kabul

Tutto ciò che perdoniamo a Biden sull'Afghanistan (e non avremmo perdonato a Trump)

Daniele Raineri

I generali coprono il presidente degli Stati Uniti sul ritiro afghano e i media non insistono troppo. Le rivelazioni dopo le audizioni dei vertici della Difesa, in tre punti

Questa settimana i vertici della Difesa americana sono stati ascoltati in audizione sul ritiro dall’Afghanistan, prima davanti alla commissione Forze armate del Senato e poi davanti a quella della Camera. Nel giro di pochi giorni ci sono state molte rivelazioni. 

 

Punto primo. Lunedì, ancora prima delle audizioni, tre fonti militari avevano detto alla rete Nbc che in realtà gli americani si erano messi d’accordo all’ultimo minuto con i talebani per evitare la caduta di Kabul “in stile Saigon”. Il generale americano Kenneth McKenzie, capo del Centcom, si era seduto davanti al mullah Abdul Ghani Baradar, comandante dei talebani, a Doha in Qatar dove in questi anni sono avvenuti i negoziati, aveva srotolato una mappa e aveva tracciato un cerchio di circa 20 chilometri attorno alla capitale Kabul. L’intesa con Baradar era che i talebani non sarebbero entrati dentro al cerchio fino a quando gli americani non avessero finito le operazioni di evacuazione e avessero dato il via libera. Altrimenti, era la minaccia di McKenzie, vi bombardiamo con gli aerei. Il giorno dopo però i talebani sono entrati dentro Kabul e non c’è stato alcun raid aereo contro di loro. Non c'è una spiegazione di questo fatto, forse Baradar a Doha non è riuscito a imporsi con i comandanti talebani sul campo e forse gli americani quando hanno visto il governo afghano dissolversi e fuggire hanno preferito evitare raid aerei – per non fare arrabbiare i seimila talebani che erano entrati. Il risultato è che le scene finali del ritiro non sono state “in stile Saigon” perché sono state peggio. 


Punto secondo. Il capo di Stato maggiore Mark Milley ha detto che l’11 novembre, pochi giorni dopo la sconfitta di Trump alle elezioni, ricevette l’ordine di ritirare tutti i soldati americani dall’Afghanistan entro il 15 gennaio, quindi cinque giorni prima dell’inaugurazione di Joe Biden. Inoltre ricevette anche l’ordine di ritirare tutti i soldati americani dalla Somalia (è un contingente molto più piccolo). L’ordine poi non fu eseguito per ragioni che non sono state spiegate a sufficienza, ma l’intento dell’allora presidente era chiaro. Trump aveva deciso di far arrivare i talebani dentro Kabul mentre Biden entrava alla Casa Bianca – forse a dicembre-gennaio ci avrebbero messo più tempo, perché d’inverno la guerra è più lenta – per metterlo fin da subito davanti a una crisi. Un autosabotaggio della politica estera dell’America per creare difficoltà al successore. 

 

Punto terzo. I generali, Milley e McKenzie, in audizione si sono rifiutati di spiegare con precisione cosa avevano suggerito di fare a Biden, invece di abbandonare l’Afghanistan. L’idea generale è che i generali si opponevano al ritiro e chiedevano di mantenere almeno 2.500 uomini nel paese per evitare quello che poi è successo, quindi il collasso rapido del governo e dell’esercito afghano, e che Biden abbia ignorato i loro consigli com’è sua prerogativa. Il presidente ha il diritto di prendere decisioni differenti da quello che i generali gli consigliano di fare, ovviamente, perché è lui a comandare e non viceversa. Però in queste settimane Biden ha sostenuto che i generali non erano contrari all’unanimità al ritiro, mentre invece dall’audizione sembra proprio che lo fossero. Manca un pezzo della storia. E’ un altro punto dove i media se ci fosse Trump alla Casa Bianca aprirebbero il fuoco e invece mostrano abbastanza generosità. I media che stanno con i repubblicani protestano, ma non possono insistere più di tanto perché Trump avrebbe ordinato anche lui il ritiro dall’Afghanistan e questo smorza la loro intenzione polemica.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)