In Afghanistan
Storia di un attacco col drone
Siamo andati sul posto di un’uccisione mirata americana contro lo Stato islamico in Afghanistan per capire se l’antiterrorismo di Biden vede davvero quello che accade sul terreno. E per quanto ci riuscirà
Jalalabad, dal nostro inviato. Per ora la campagna dell’Amministrazione Biden contro lo Stato islamico in Afghanistan dopo il ritiro totale dei soldati è rappresentata da due strike con i droni. Uno il 29 agosto nella capitale Kabul e un altro due giorni prima, il 27, in una regione al confine con il Pakistan. Quello del 29 agosto è stato un disastro: il Pentagono aveva annunciato di avere colpito una macchina “dello Stato islamico” che aveva “attentatori suicidi” a bordo e stava per attaccare di nuovo l’aeroporto internazionale di Kabul, ma è stato smentito. Ha ucciso dieci civili che non c’entravano nulla e tra loro sette bambini. Erano i giorni tesi dell’evacuazione di massa, lo Stato islamico il 26 agosto aveva ucciso quasi duecento civili afghani e tredici soldati americani con un attacco suicida – forse alcune vittime sono state colpite dal fuoco di reazione dei soldati americani, come sostengono testimoni ascoltati dalla Bbc – e ci si aspettava un altro attacco dello Stato islamico da un momento all’altro. L’aeroporto era ancora esposto come tre giorni prima. L’apparato di sicurezza americano formato da intelligence e militari monitorava Kabul e le case sospette per bloccare in anticipo le cellule dello Stato islamico, ma ha commesso un errore irreparabile. Un’analisi video del New York Times dimostra che gli americani hanno scambiato un civile afghano che caricava taniche di acqua per la famiglia sulla sua macchina per un terrorista che caricava esplosivo (che spesso è contenuto in taniche).
A questo punto diventa interessante anche il primo strike con un drone, quello del 27 agosto. Serve a fare il punto della lotta agli estremisti in Afghanistan, che il presidente Biden ha detto di voler continuare anche se adesso sarà “dall’esterno”. Il governo americano ha informazioni di qualità sullo Stato islamico in Afghanistan oppure brancola nel buio? E se questo è l’inizio della campagna antiterrorismo, con l’uccisione per errore di dieci civili, cosa possiamo aspettarci nel futuro – quando gli americani avranno meno informazioni perché l’Afghanistan è diventato un territorio che li respinge ora che al potere ci sono i talebani? Le fonti sul posto confermano la versione del Pentagono? Per tutti questi motivi siamo andati sul luogo dello bombardamento.
Un gruppo di talebani pattuglia la strada tra Jalalabad e il confine con il Pakistan (Foto di Gabriele Micalizzi)
La nota ufficiale del Pentagono sostiene che il drone ha ucciso un “pianificatore” dello Stato islamico, quindi un membro che si occupa di organizzare gli attacchi come quello contro l’aeroporto – ma il Pentagono ha aggiunto che rifiuta di rivelarne il nome. Poi la nota ufficiale è cambiata, per sostenere che il drone ha ucciso il pianificatore, un facilitatore – quindi qualcuno che agevola le operazioni: è sufficiente procurare una macchina, o un’arma o una casa sicura – e ha ferito un terzo uomo dello Stato islamico.
Da quello che il Foglio raccoglie sul posto, è molto plausibile che il bersaglio del bombardamento fosse davvero un pezzo grosso dello Stato islamico in Afghanistan. Il drone ha colpito appena fuori da Jalalabad, una città dell’est dell’Afghanistan al confine con il Pakistan. Ci si arriva per una viuzza sterrata e circondata da canali e dalle case afghane che non lasciano vedere nulla dell’interno perché sono circondate da muri ciechi in terra. A dieci minuti ci sono le strade intasate e affollatissime di vita e di traffico, qui c’è un silenzio pomeridiano da campagna abbandonata e quasi zero macchine. La regione è il Nangarhar, che confina con il Pakistan ed è quella a più alta densità di Stato islamico in tutto il paese: la maggioranza dei duecento attacchi rivendicati dal gruppo quest’anno è successa da queste parti – centoundici, secondo gli analisti del gruppo ExTrac che hanno gentilmente condiviso i loro dati con il Foglio. Poco oltre questa pianura cominciano valli ripide che in questi anni sono state un nascondiglio perfetto per lo Stato islamico. A un’ora di macchina c’è Achaeen, che nel 2017 divenne la scena di una notizia internazionale perché l’allora presidente americano Donald Trump ordinò di distruggere un complesso di cave sul fianco di una montagna con la bomba convenzionale più potente del mondo – di più cominciano le armi nucleari, per intenderci. Si vede ancora la parte di montagna annerita, ma il gruppo estremista aveva quasi del tutto abbandonato quel nascondiglio prima dell’attacco.
Secondo un articolo pubblicato tre mesi fa da Associated Press, lo Stato islamico cacciato dalle valli si nasconde nel caos di Jalalabad e dintorni e si sarebbe preso il business legale dei tuk-tuk, quelle vespette gialle a tre ruote che servono da taxi. I tuk-tuk dello Stato islamico (che non sono tutti i tuk-tuk di Jalalabad) servono a spiare e a tenere sotto controllo quello che succede in città e a volte ad attaccare. In un video ufficiale del gruppo uscito a luglio si vede un gruppo di fuoco dello Stato islamico scendere da un tuk-tuk per sparare all’impazzata contro un veicolo della polizia. L’uomo ucciso dal drone vicino a Jalalabad conduceva una vita molto isolata. Non andava in moschea, non andava nei negozietti locali, non frequentava nessuno, e così anche la moglie e il figlio di sei anni. Queste sono le cose che ci dicono gli abitanti della zona. Sembra incredibile che il bambino non abbia mai comprato nemmeno un pacchetto di caramelle. La moschea in ogni caso sarebbe per uno dello Stato islamico poco tollerabile perché ideologicamente corrotta. L’uomo andava in città al mattino e tornava alla sera. L’unico a saperne qualcosa di più è il padrone della casa che gliel’ha affittata e dice che l’uomo è arrivato con la famiglia tre mesi fa da Bati Kot, un villaggio ancora più vicino al confine con il Pakistan. Chiediamo al capo del villaggio, risponde che quelli dello Stato islamico non ce l’hanno scritto sulla fronte, ma suo figlio lì accanto ammette che la voce che appartenesse al gruppo circolava già prima del bombardamento americano, assieme a un altro rumor non verificato: era stato ferito in un altro strike, sempre da un drone. Quando il drone ha sparato il missile Hellfire contro la casa dell’uomo di notte tutto il villaggio ha sentito l’esplosione fortissima, ma i talebani sono arrivati presto a circondare la zona. Hanno capito che se gli americani hanno scelto di colpire la casa allora è probabile che ci fosse qualcuno dello Stato islamico, quindi un nemico mortale anche per loro. Hanno arrestato il padrone di casa, l’hanno portato via per due giorni per spremere qualsiasi informazione utile. Poi hanno cominciato a sorvegliare la casa, “tornavano quasi ogni giorno”, dicono gli abitanti del villaggio, per vedere se qualcuno si avvicinava. Un gruppo di talebani più tardi ci dirà: se foste andati là due mesi fa (quindi prima della vittoria talebana) quelli dello Stato islamico vi avrebbero presi. E’ un modo come un altro per vantarsi della sicurezza aumentata, orgoglio dei talebani.
(Foto di Gabriele Micalizzi)
Un telo copre l’ingresso del giardino cintato della casa, ci si arriva da un vicolo. Scosti il telone e vedi la raggiera delle schegge su tutti i muri e sulle colonne di cemento e il punto d’impatto del missile, che gli uomini del villaggio hanno riempito di terra in modo che chi entra non ci finisca dentro. A un metro dal punto d’impatto c’è la carcassa bruciacchiata di un tuk-tuk giallo. Era il lavoro dell’uomo. L’esplosione ha ucciso lui, la moglie e il figlio, dice la gente, anche se il capovillaggio sostiene di non avere visto i corpi mentre erano portati via – ma altri sono arrivati per primi sul posto e hanno raccontato cosa hanno visto. Sul pavimento di una camera c’è ancora una pozza di sangue nero, è dove hanno portato un corpo subito dopo l’esplosione per prestare i primi soccorsi ma a giudicare dalla quantità di sangue perso era troppo tardi. La gente dice una cosa interessante: la notte dell’esplosione nella casa oltre alla moglie e al figlio c’erano “decine di donne, non di qui”. In una società così rigida la presenza delle donne non si spiega. Un’ipotesi: la casa forse serviva da scalo per le donne dello Stato islamico che tentavano di riunirsi ai loro uomini, che in queste settimane sono riusciti a scappare a centinaia dalle carceri in giro per il paese (l’attentatore che ha ucciso quasi duecento persone all’aeroporto di Kabul, Abdul Rahman al Logari, era uno di loro: appena libero si è andato ad arruolare nel gruppo dei volontari suicidi).
A differenza dello strike di Kabul, che è stato fatto come reazione emergenziale al sospetto che una cellula suicida dello Stato islamico stesse per attaccare l’aeroporto, questo è stato fatto con una scelta a freddo e senza scadenze – se non quella di dimostrare che gli Stati Uniti sanno lanciare attacchi di rappresaglia. Forse l’uomo aveva scelto in piccolo la tattica di Osama bin Laden, che per anni si nascose in un compound senza mai uscire, nella speranza che questo l’avrebbe salvato. Ma senza applicarla alla perfezione, perché usciva a fare cose in città. Anche in questo strike la versione del Pentagono sulle “zero vittime civili” è smentita dai fatti.
L'editoriale dell'elefantino