(foto di Daniele Raineri)

Reportage dall'Afghanistan

Un ritiro favoloso

Daniele Raineri

Siamo stati dentro all’operazione militare per salvare migliaia di civili afghani. E’ una macchina impeccabile. Ma allora come siamo arrivati alle scene da horror catastrofico appena fuori dalla zona di evacuazione?

Dal nostro inviato a Kabul. Si abbassa il portellone del C-130 e illumina poco la pista senza luci dell’aeroporto di Kabul, i quattro fucilieri saltano giù e si dispongono attorno all’aereo, altri soldati italiani avanzano da un lato, da una fila bassa di edifici, seguono con il percorso ad angoli retti che si fa per stare lontano dai motori dell’aereo. Dietro di loro c’è una lunga colonna di ombre e non è poesia, è proprio che l’aeroporto è buio e tutti sono ridotti a sagome. Le sagome dei militari nel buio sono sicure, scattano, fanno cose che hanno già fatto mille volte e sanno dove andare, le sagome degli afghani stanno dietro più incerte, più pesanti, tantissime sagome sono irregolari perché portano bambini. La luce di una telecamera di una troupe percorre tutta la fila e rivela in progressione i volti: donne, foulard attorno alle teste, papà con figli in braccio, alcuni vestiti all’occidentale con le polo, altri in abiti afghani, altri con un sacchetto in mano, molti zainetti, i bambini per mano e quelli di pochi giorni. Ci si parla a gesti e ci si picchietta sulle spalle perché il rumore degli aerei e degli elicotteri sovrasta tutto. I soldati italiani contano, contano chi sale, contano quando il carico è finito e tutti sono a bordo, i tempi sono tutti calcolati e stretti ma ormai hanno già evacuato più di quattromila afghani e conoscono la procedura a memoria. Sono impeccabili. Gli afghani spariscono dentro il C-130, che appena possibile rullerà via e si alzerà nella notte di Kabul, oltre le montagne, verso il Pakistan dove è prevista una sosta di un’ora per fare rifornimento di carburante – ma senza scendere per carità di Dio, senza nemmeno aprire il portellone, il Pakistan in questa cosa non vuole nemmeno figurare per sbaglio. Il carburante si fa in Pakistan perché se tutti gli aerei sulla pista chiedessero di essere riforniti la quantità sarebbe fenomenale. E’ il festival degli aerei da trasporto militari, che giganteggiano nel buio e rullano a pochi metri gli uni dagli altri in un balletto che farebbe venire un infarto a una torre di controllo civile. L’operazione di evacuazione è allo stesso tempo agli sgoccioli, perché è l’ultimo giorno per l’Italia e per altri (giovedì è stato l’ultimo giorno per i civili, venerdì la macchina dell’evacuazione è stata smontata ed è andata via a sua volta), ma anche al suo apice: ogni ventiquattro ore ventimila afghani portati via. 

 

Un aviere racconta che ha interrotto le vacanze e ha spiegato le immagini tv a suo figlio di sette anni e il figlio gli ha detto: “Papà porta via più bambini che riesci” e uno pensa che soltanto un ufficio stampa bravissimo potrebbe inventarsi una cosa del genere e invece è vera, i militari in questa evacuazione sono così, ci sanno fare, passano fra le file dei profughi bardati con le tute anticontaminazione e il cappuccio bianco e gli occhiali di plastica – ma finora “la percentuale di positivi al Covid è bassissima per fortuna” dice un responsabile – e scherzano con i bambini, fanno accomodare le madri, guidano tutti. 

 

Il viaggio è in due tappe. Da Kabul al Kuwait si fa in C-130, aereo pieno, tutti seduti sul pavimento della carlinga, gli avieri tendono delle corde da una parte all’altra per reggersi al decollo. Dal Kuwait a Roma Fiumicino si fa sul Kc 767, comodi sui sedili, con la toilette e il cibo, se ci fossero gli oblò uno si scorderebbe che è un volo militare. Il totale è di quasi cinquemila afghani evacuati soltanto dall’Italia, più di Francia, Australia, Canada e Turchia.

Il problema è che tutto questo sforzo internazionale generosissimo arriva adesso, come premio di consolazione dopo che l’intero Afghanistan è ormai tornato nelle mani dei talebani. Fra pochi giorni questa evacuazione fantascientifica, queste file nella notte che vengono ingoiate dagli aerei militari più grandi del mondo saranno soltanto un ricordo. E’ come vedere una versione centroasiatica della caduta del Muro di Berlino nel 1989, è un evento storico del quale cominceremo a comprendere le ramificazioni soltanto fra decenni. Ma già adesso sappiamo che al contrario del Muro di Berlino le conseguenze sono negative, quella era la fine di un isolamento, una liberazione popolare, la rottura di una prigione politica, l’inizio di un effetto domino che travolgeva tutto il resto e faceva ben sperare. Questo è l’isolamento che arriva, l’inaugurazione di una prigione a cielo aperto, l’inizio di un effetto domino che travolge il resto e fa spavento – perché il blocco aggressivo dei talebani ha vinto e potrebbe trascinarsi dietro altri pezzi della regione e creare molti problemi. Di certo ha umiliato ogni idea di possibile cambiamento. L’evacuazione di questi giorni è stata impeccabile e nobile e ha lavorato come un orologio grazie alla professionalità degli eserciti, ma viene da chiedersi se tutta prontezza e questa efficienza non avrebbero dovuto essere usati prima. Per non arrivare a queste scene, per fermare lo scivolamento dell’Afghanistan all’indietro di nuovo verso i talebani. E invece per anni abbiamo vissuto l’impegno militare e civile in Afghanistan come se fosse una colpa, una vergogna, un argomento da evitare. Nessuna strategia a lungo termine, nessuna domanda, nessun pensiero proiettato al futuro: e se succede che i talebani ritornano? E fare qualcosa, tanto per essere chiari, non voleva dire per forza soltanto combattere una guerra lontana. Sarebbe stato utile costringere il governo afghano a una vita meno indecente, sarebbe stato utile costringere il Pakistan a essere meno sfacciato nel suo sostegno alla guerriglia talebana, sarebbe stato utile essere meno scontati nella conversazione pubblica, ormai bloccata sulle solite quattro idee riguardo all’Afghanistan come la forever war oppure la tomba degli imperi o il governo vassallo. Sono idee che i competenti possono smontare in fretta. La forever war era già finita, si era trasformata in un’operazione di sicurezza. La tomba degli imperi è un luogo comune, fior di storici la contestano. Il governo afghano era corrotto all’inverosimile e dal paese usciva fuori una quantità enorme di denaro e finiva nella costruzione di ville di lusso negli Emirati e in altri paesi del Golfo, ma il regime talebano è peggio.  

Amina si porta dietro un faldone con gli attestati di merito che ha ricevuto. Ha fatto un seminario di un giorno sul climate change. Ha fatto un corso di una settimana organizzato da una società per l’avanzamento dei giovani. Ha fatto un workshop sulla condizione delle donne. Molti di questi attestati sono dentro a cartelle di plastica trasparente, per protezione. Sul sedile accanto c’è sua sorella, anche lei ha il suo faldone. Ha lavorato in radio. Ha vinto un premio in una competizione per il discorso migliore. Ha fatto anche lei il seminario sul climate change. Sono parte della minoranza hazara di Kabul, che lo Stato islamico tenta di sterminare e che i talebani attaccavano – negli anno scorsi, non adesso perché adesso c’è da fare la faccia buona ed evitare le sanzioni, poi magari se ne riparla quando cala l’attenzione. Sono hazara e quindi hanno buoni motivi per essere portate via dal paese, ma quando è arrivato il momento di presentarsi ai cancelli per essere notate e salvate dai soldati italiani in mezzo alla folla si sono presentate con una versione portatile del loro curriculum. Ho lavorato in radio, so parlare in inglese, ho un attestato di una organizzazione non governativa, portami via da qui. La richiesta era altissima, le possibilità poche, la selezione diceva: o dentro o fuori. Che cosa potrei portare con me per dimostrare ai soldati nervosi che bloccano la folla al cancello di un aeroporto che merito di essere salvato? Lavoro in un giornale, sono laureato, mettimi sulla lista dei salvati, caricami su un aereo. Quando la storia di questi giorni di evacuazione sarà scritta avrà molte pagine belle e moltissime pagine orrende. 

Andiamo con i carabinieri del primo reggimento Tuscania a vedere l’altra faccia dell’operazione, la folla che aspetta invano ai gate controllati dai talebani che circondano l’aeroporto. Ci muoviamo su una macchina civile che sulla fiancata ha soltanto la scritta: 1° Tuscania, con la vernice nera. Lo fanno tutti qui, vedi auto “Sweden”, “USA”, “Red Cross”, c’è anche una “Fuck Yeah!”. Sì, cazzo! La scritta con la vernice è un modo veloce per distinguere i mezzi e tanto si andrà via tutti fra poche ore o fra pochi giorni. Le auto o saranno distrutte o se le prenderanno i talebani. Al gate ci sono i marine americani che montano la guardia. L’ufficiale dei carabinieri spiega che gli americani non hanno sparato sulla folla, non hanno ucciso nessuno come si diceva nei primi giorni, ma hanno usato tecniche di controllo della folla dure per fermare gli afghani. Gli americani in cima al muro di cemento guardano sotto di loro un mare di afghani che ancora spera di entrare. Ci sono duecentocinquantamila persone che in teoria avrebbero i requisiti per essere evacuate ma sono state lasciate fuori, oltre ovviamente a quelli che non hanno i requisiti ma ci stanno provando lo stesso. Una decina di metri dietro al muro, accoccolati fra i rotoli di filo spinati, ci sono i marine di riserva. Più indietro ancora le armi pesanti, le mitragliatrici su cavalletto, se qualcosa dovesse andare male – ma per ora è meglio tenerle fuori portata. A destra del muro c’è un ingresso senza cemento, soltanto una porta di rete e gli afghani ci si schiacciano, con il reticolato che entra nelle facce e nelle mani. Più a destra ancora c’è un canale di scolo della fogna che emana fetore. E’ notte fonda. Nel pomeriggio un uomo dello Stato islamico arriverà fin qui e si farà saltare in aria, ammazzerà almeno ottanta afghani – ma fonti locali dicono centosettanta – e quattordici soldati americani. A un certo punto l’ufficiale in comando dice: se ci arriva l’ordine dovete stare indietro perché apriremo la porta di rete metallica per far entrare una persona da evacuare. Arriva l’ordine, i soldati si fanno sotto, cominciano a gridare “get back!” agli afghani, assieme a un interprete afghano. Forse l’uomo dello Stato islamico ha aspettato un momento come questo per farsi saltare in aria, quando i soldati americani e la calca afghana erano per pochi minuti a contatto. L’elogio funebre dello Stato islamico dice che l’attentatore era di Logar (soprannome: “Abdulrahman al Logari”), una zona fuori Kabul, dove negli anni scorsi hanno lavorato anche i soldati italiani. Secondo l’uso del gruppo terrorista era già a disposizione sulla lista dei volontari suicidi, è stato trasferito in città, è stato equipaggiato con l’esplosivo, è stato portato all’aeroporto internazionale, si è infiltrato fra la folla. Nel frattempo gli allarmi dell’intelligence suonavano come sirene, qualcosa era trapelato, c’era movimento – forse grazie a qualche intercettazione elettronica, del genere che con i talebani al potere non ci saranno più perché questo facevano i militari americani rimasti nel paese a proteggere il governo. Al Logari ha risalito la folla metro dopo metro, come uno che a un concerto volesse arrivare alle transenne, si è piazzato vicino al canale, è possibile che abbia aspettato che il cancello fosse aperto per pochissimo. 

 

“We will not forgive. We will not forget. We will hunt you down and we will make you pay”. “Non perdoneremo, non dimenticheremo, vi daremo la caccia e ve la faremo pagare”, ha detto poche ore dopo il presidente americano Joe Biden, costretto ad andare in tv perché in un giorno solo sono morti tredici soldati americani in Afghanistan. Le morti di soldati americani per azioni ostili in Afghanistan degli anni prima sono queste: quattro nel 2020, diciassette nel 2019, tredici nel 2018, undici nel 2017 e nove nel 2016 – tanto per ricordare che un ritiro fatto male è più pericoloso di una presenza accorta. Biden è durissimo, ma non spiega come gli americani che stanno lasciando il paese saranno più efficienti a dare la caccia ai terroristi rispetto a quando potevano operare da dentro al paese. Negli anni passati hanno ucciso in rapida successione quattro emiri dello Stato islamico in Afghanistan. In pratica il gruppo nominava un nuovo capo e i droni americani nel giro di un anno al massimo lo trovavano e lo uccidevano. Eppure lo Stato islamico è stato in grado di uccidere soldati americani nel giro di dieci giorni dall’inizio delle operazioni all’aeroporto di Kabul. Da adesso gli americani saranno costretti ad agire con missioni cosiddette “over the horizon”, da oltre l’orizzonte. I droni partiranno da basi nel Golfo e ci metteranno dieci ore ad arrivare sul posto, i caccia decolleranno da portaerei in navigazione nell’Oceano indiano. La caccia sarà più difficile e meno efficiente. Avremo molte meno notizie e meno informazioni, perché non ci saranno più truppe occidentali e ci saranno meno diplomatici, ma lo Stato islamico è laggiù e proverà a proliferare e a sfruttare la situazione. 

Di ritiro in ritiro siamo più deboli, anche se non lo vogliamo ammettere. Si perde in capacità di muoversi, si perde in credibilità. E’ un’emorragia nemmeno troppo lenta e  a volte è meno visibile e a volte – come a Kabul – spettacolare. Quando gli afghani salvati dai soldati italiani atterrano in Kuwait sono trasbordati in fretta su un altro aereo. Le guardie kuwaitiane sulla pista sorvegliano che nessuno faccia foto, perché senza immagini un fatto non esisterà nella conversazione pubblica. Gli ufficiali che sorvegliano le operazioni si raccomandano: “Niente foto, niente video”, c’è apprensione. Un militare aggiunge: “Ci siamo fatti già cacciare dalla base negli Emirati [un paio di mesi fa, a causa di annunci improvvidi], vediamo di non farci cacciare dal Kuwait, che è l’unica che ci è rimasta nella regione”. E’ il 2021, i talebani controllano di nuovo l’Afghanistan, salviamo migliaia di persone ma non possiamo fare nulla per altre migliaia – e sono di più –  ed è anche meglio se non ci facciamo troppo notare quando passiamo per il Kuwait. Il ritiro è favoloso, tutto il resto prima durante e dopo non lo è. Scopriamo di avere il fiato corto.
 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)