La scarcerazione dell'omicida di Robert Kennedy divide l'America

Stefano Pistolini

La polarizzazione sul caso Sirhan, 53 anni dopo. Anche all'interno del clan Kennedy c'è chi riesce ad accettare e chi proprio non può dimenticare
 

Una vecchia storia sta facendo molto rumore in America, per dimenticare recenti angosce e diffuse inquietudini. Al sedicesimo tentativo, l’apposita commissione composta da due membri ha raccomandato la liberazione per buona condotta di Sirhan Sirhan, il palestinese che uccise Robert Kennedy alla mezzanotte del 5 giugno 1968 nella lobby dell’Ambassador Hotel di L.A., dove il senatore aveva annunciato la vittoria nelle primarie democratiche in California, che ponevano in discesa la sua corsa verso la Casa Bianca. Sirhan attribuì il proprio gesto a una reazione per le parole con cui Kennedy aveva sostenuto l’invio di aiuti militari a Israele.

 

Condannato alla pena di morte, Sirhan, detenuto a San Diego, ebbe salva la vita grazie all’abolizione della pena capitale in California. In più la sua sentenza non venne convertita, come di solito, in ergastolo non rivedibile, ma il tribunale lasciò uno spiraglio a una sua eventuale futura scarcerazione. Ogniqualvolta ne ha avuto facoltà Sirhan si è appellato alla possibilità di ottenere la libertà, sempre negatagli fino alla nomina a procuratore di stato di George Gascón, un progressista dalle strategie non convenzionali, tra cui quella di non inviare rappresentanti dell’accusa alle udienze per la revisione delle pene, lasciando l’onere della decisione alla commissione, giudicandola sufficientemente competente. E qualche giorno fa il verdetto (in effetti si tratta di una semplice “raccomandazione”) è andato in favore di Sirhan, per motivi di età – oggi ha 77 anni –, per la sua non pericolosità, per la sua ammissione di responsabilità – in effetti mai completamente esplicita sullo svolgimento dei fatti – e per le condizioni di salute, aggravate da un accoltellamento subìto dietro alle sbarre. Dotato di passaporto giordano, Sirhan potrebbe restare in California, a Pasadena, dove ha un fratello, o tornare in medio oriente. La procedura è ancora lunga: l’indicazione fornita dalla commissione, verrà infatti prima sottoposta alla revisione di un apposito ufficio di verifica e, se confermata, finirà sulla scrivania del governatore dello stato, il democratico Gavin Newsom, che avrà 30 giorni per pronunciare l’ultima parola. Newsom, in campagna elettorale per la riconferma, già in passato, in più di un’occasione, ha negato la libertà a detenuti che avevano ottenuto la buona condotta, a cominciare da due componenti della setta di Charles Manson.

 

Ma dove la vicenda, già al centro di accanite dispute da talk-show, sta conoscendo una drammatizzazione che ne aumenta enormemente la popolarità, è con la discesa in campo dei Kennedy, perenne famiglia reale americana, le cui multiformi peripezie vengono seguite dal pubblico con una passione senza eguali. Ebbene anche il clan Kennedy, di fronte all’annuncio della possibile scarcerazione di Sirhan, si è diviso. Sei dei nove figli viventi di Robert si sono detti sconvolti dalla notizia. Per loro il trauma della perdita non è superabile e ora viene acuito dalla sola possibilità di un perdono. D’altro canto ci sono Kennedy che la vedono differentemente, a cominciare da Robert Jr, che nel 2017 ha incontrato Sirhan e poi, in una lettera pubblica, ha manifestato il convincimento che l’assassino del padre andasse liberato.

 

Ieri, a elevare il livello del confronto, è arrivato l’editoriale pubblicato dal New York Times a firma di Rory Kennedy, ultima figlia di RFK, nata quando il padre era morto da sei mesi. I toni utilizzati da Rory, stimata documentarista, sono intransigenti: l’omicidio di mio padre è stato irreversibile, una verità dolorosa con cui ha convissuto ogni giorno della vita. “Poiché è stato ucciso prima che io nascessi, non ho mai guardato mio padre in faccia né lui ha mai potuto guardare me. Non ha mai giocato con me, non mi ha insegnato ad andare in bicicletta, non mi ha accompagnato al dormitorio dell’università”. Le parole di Rory, rilanciate dal quotidiano più influente d’America, sono dolenti e assumono forma di supplica quando ricordano come la storia americana avrebbe potuto essere diversa, se il pacifista Robert Kennedy fosse arrivato alla Casa Bianca: “So che Sirhan è stato in carcere a lungo, 53 anni, che poi è la mia età e la quantità di tempo da cui mio padre non c’è più. Nel nome della mia famiglia e del mio paese, vi chiedo di rigettare questo appello e di tenerlo in prigione”. A spanne, è un macigno scagliato sulle speranze del vecchio Sirhan. In un’America che in questi giorni ha pochissima voglia di perdonare. E con un governatore che valuterà come non irritare i potenziali elettori. 

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