Dettaglio della copertina de "Il principe del mondo", romanzo di Antonio Monda (Mondadori)

Dall'euforia alla crisi. Nessuno è indispensabile nella New York di Joe Kennedy

Marianna Rizzini

“Il principe del mondo”, l’ultimo libro di Antonio Monda

Un match di boxe tra un pugile dal grande cervello e una bestia umana, e l’euforia che vira in angoscia sottile negli anni che precedono la Grande Depressione. Un giovane ebreo dal nome letterario come il parente illustre che vanta – Singer – che fa da io narrante di una vicenda non soltanto personale e non soltanto pubblica. E i grattacieli che svettano avveniristici proprio mentre tutto il resto va in rovina sotto i colpi della crisi economica, nella luce tersa e crudele dell’Indian summer. Ne “Il principe del mondo” (Mondadori, pp. 300, 18 euro), Antonio Monda ambienta l’ottavo titolo della sua saga newyorkese nel momento in cui l’Europa e l’America non vogliono rendersi conto di quello che sta succedendo nella Germania di Adolf Hitler (e se ne rendono conto quando è troppo tardi), in una New York in cui va già in scena tutto quello che il “Secolo breve” sarà dagli anni Trenta in poi: la guerra, la pace, i conflitti razziali e sociali, la competizione sfrenata, la fiera delle vanità e i fuochi fatui, lo sbarco sulla Luna e la scalata parallela al potere di famiglie dalla storia non sempre lineare, famiglie destinate a grandi successi e grandi tragedie.

Ci sono i fratelli Warner nei giorni della grande innovazione che rivoluzionerà il cinema, il passaggio al sonoro. E ci sono gli scrittori che snobbano un mondo a cui poi chiederanno lavoro come sceneggiatori. Ci sono le dive e i divi, Mae West e Charlie Chaplin, i vizi e le virtù, accanto alle piccole follie del quotidiano. New York cambia a un ritmo diverso rispetto a quello con cui muta il mondo attorno, e lo sa bene Joseph Kennedy, l’uomo che poi vedrà morire quattro figli – anche quelli per cui aveva sognato un destino presidenziale a lui precluso. Ma nel 1927 è ancora presto, anche se a Hyannis Port già si respira la grandeur sobria e noncurante di chi non ha bisogno di ostentare la ricchezza, comunque sia stata ottenuta. L’essere emigranti o figli di emigranti è macchia lavabile ma non del tutto sufficiente ad azzerare le differenze di ceto e mentalità, però nulla può contro la spregiudicatezza. E i Kennedy lo capiscono in fretta. Nessuno è indispensabile, questo apprende il giovane Singer, osservando una famiglia e un uomo che più volte si spingono a varcare il confine tra umanità e disumanità. Non ci si può fermare, in quella New York che accoglie sfidando e respinge senza cacciare; non ci si può innamorare, in una città dove la distanza di un tavolo da quello degli avventori celebri, nel ristorante del dopo-teatro, può decretare la fine prematura di qualsiasi relazione e prospettiva. Che cosa si diventa, a New York, deve chiedersi a un centro punto Singer, che ha conosciuto l’Europa e la California, le tradizioni ebraiche e l’assenza di tradizioni, i legami tossici e la solitudine più nera, il lavoro che nobilita e quello che trasforma in automi. La scelta è sempre possibile, l’ultimo colpo può essere sferrato oppure no, e l’avversario si sconfigge anche a forza di tecnica: è l’insegnamento della boxe, non a caso seguita da sindaci e gangster, amici e nemici, riuniti davanti al ring come davanti al film della loro vita.  

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.