Joe Biden (foto EPA)

L'inconsapevole Joe Biden

Giuliano Ferrara

Il presidente ha sbagliato. Cina e Russia, i nemici numero uno menzionati nel suo discorso, se la ridono per il ritiro da Kabul. E la rete militare che finora assicurava la pace nel mondo è sfibrata

Quando dice che le guerre a un certo punto devono finire, che gli americani avevano ottenuto in Afghanistan quanto volevano con lo smantellamento dei binladenisti, che la loro sicurezza e l’interesse nazionale oggi riguardano altri fronti come la Cina e la Russia, che la guerra al terrorismo si può fare anche senza inviare truppe e spendere trilioni di dollari, Biden si comporta da quel che è: un uomo decente, un politico che sa argomentare quello che l’opinione pubblica in maggioranza desidera sia argomentato, un esperto di politica estera da sempre convinto che soft power, diplomazia, economia, intelligence e polizia internazionale sono sufficienti a tenere in un equilibrio possibile l’ordine mondiale e a difendere diritti e valori universali senza impegnare generazioni di americani in qualcosa che il senso comune, a vent’anni dall’11 settembre ormai rifiuta, mentre prevalgono preoccupazioni sanitarie e domestiche.

Si può essere contenti per lui, visto che è in sintonia profonda con il suo paese, e la botta l’ha presa perché un demagogo isolazionista indecente aveva firmato prima di lui un accordo capestro con i talebani a Doha, tra l’altro liberando i loro capi militari dal carcere, ricostituendo lo stato maggiore del loro esercito e distruggendo in un colpo solo l’embrione malnato e malcresciuto di potere nazionale afghano non talebano (per non dire del timing demenziale, il ritiro programmato mentre scatta la stagione dell’offensiva del nemico, la primavera-estate). Si può essere relativamente contenti, visto che in effetti l’alternativa tra ritiro e ripresa della guerra in escalation era da brivido per un presidente neoeletto, ma Biden sbaglia.

Non è una tediosa questione di luoghi comuni della geopolitica, ma semplice osservazione di fatto: con la caduta di Kabul nelle mani del nemico, che non sarà l’armata distopica e sanguinaria dei khmer rossi e vuole in apparenza riorganizzarsi con un po’ di vernice e un tantino di sharia; e con la caduta in quei modi, sulla scia di quell’accordo, con quella dissoluzione strategica del nesso con gli alleati occidentali e con i partner del fallito nation building di vent’anni, chi se la ride sono i poteri che per Biden minacciano la sicurezza nazionale oggi: la Cina e la Russia prima di tutto. Dell’allegra brigata fanno parte i pachistani atomici, e la branca dei servizi segreti dell’Isi, i turchi, i qatarioti e in parte gli iraniani prenucleari e i loro proxy come Hamas e Hezbollah (c’è la questione sciita a fronte del sunnismo teologico talebano, ma politics make strange bedfellows). Non parliamo dell’Iraq, che a forza di mezzi ritiri americani è una mezza provincia iraniana, e di ciò che resta, forse più di quanto non ci si aspetti, dello Stato islamico califfale come progetto e di Al Qaida come erede del ciclo culminante del kamikazismo.

Tra gli sconfitti che subiscono la disfatta sul campo ci sono l’India, la Nato che incassa la gestione coraggiosa ed efficiente del ponte aereo d’emergenza ma anche una finale delegittimazione come agenzia militare di contenimento dei totalitarismi uscita dall’epopea della Guerra fredda. Non parlo delle vittime più ovvie, le donne e gli uomini afghani, perché il cuore della faccenda non è, purtroppo, il nostro cuore umanitario o il nostro altruismo democratico. Anzi, la faccenda è tutta lì.

Biden pensa che le truppe dislocate all’estero, nei teatri di dissoluzione politica e statuale, nei failed state, sono un sacrificio altruistico pagato dagli americani o lo sono diventato dopo la cattura e l’esecuzione di Bin Laden. E’ un uomo dell’apparato del Partito democratico, un politico con una sana formazione provinciale e una solida esperienza internazionale, cocciutamente e sinceramente sicuro di rendere un servizio all’America e al popolo americano riducendo la sua proiezione esterna e il suo potere di dissuasione nel mondo. In questo non ha un briciolo degli scrupoli politici di un Truman, di un Reagan, di un Bush jr, e serenamente presiede all’inaugurazione di una nuova èra cui ha fatto da battistrada il populismo arcigno e solipsistico dell’America First. Restano nella nuova èra il presidio della Corea, l’eredità anche militare in Europa, la debole difesa di Taiwan, la flotta padrona dei mari, il Pentagono, il Dipartimento di stato, lo scheletro della Nato a encefalogramma piatto (definizione di Macron) e 800 basi militari sparse nel mondo tra un sistema di protezione missilistico e l’altro. Non sono pegni di altruismo, sono la sempiterna garanzia di una pace relativa attraverso la preparazione e la disponibilità alla guerra. Ma è una rete lacerata da quello che è successo, e Biden ne sembra fondamentalmente inconsapevole.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.