Il porto di Beirut dopo l'esplosione del 4 agosto 2020 (Ansa)

Qui Beirut

A un anno dall'esplosione il Libano è sempre più in crisi

Rolla Scolari

Metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mancano le medicine e la valuta nazionale è crollata del 90 per cento. E governo e magistratura non hanno ancora indicato colpevoli

Duecentodiciotto morti, 7.000 feriti, 77mila appartamenti distrutti o danneggiati, 300mila sfollati e danni per oltre quattro miliardi di dollari, secondo la Banca mondiale. A un anno dall’esplosione al porto di Beirut – che ha devastato interi quartieri della capitale libanese – il governo e la magistratura non hanno ancora indicato colpevoli all’origine di queste spaventose cifre. Non avevano atteso indagini, i residenti di Beirut, i familiari delle vittime: “Il nostro governo ha fatto questo”, aveva scritto qualcuno in inglese, nei giorni immediatamente dopo l’esplosione, su un muretto di cemento, con la vista sugli immensi silos di grano del porto, sventrati e fumanti nel mezzo della devastazione. 

 

“I funzionari libanesi non sono riusciti a proteggere i cittadini” è l’accusa, costruita in 650 pagine di puntigliosa inchiesta, di Human Rights Watch. Di quelle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate con negligenza da sei anni in un hangar del porto di Beirut – a poche centinaia di metri da quartieri residenziali – sapevano i funzionari del ministero dei Trasporti e dell’Interno; l’esercito e i servizi di sicurezza. Sapevano anche, da pochi mesi apparentemente, il presidente Michel Aoun e l’allora premier Hassan Diab. Non sono stati ancora indicati però dalle autorità libanesi i responsabili di una fatale e distruttiva incuria burocratica e amministrativa, la stessa che continua a trascinare il paese sempre più a fondo in una crisi finanziaria, economica, sociale e politica senza precedenti.

 

Il 50 per cento della popolazione vive oggi sotto la soglia di povertà, la valuta nazionale è crollata di un impressionante 90 per cento, secondo la Banca mondiale quella libanese sarebbe tra le tre peggiori crisi economico-finanziarie dalla metà del XIX secolo. Nelle casse dello Stato mancano i dollari per pagare le forniture estere di carburante: da qui le code di chilometri alle poche stazioni di benzina ancora aperte – non accadeva neppure durante la guerra civile, tra i 1975 e il 1990 – e i blackout sempre più estesi nel tempo e nello spazio. Mancano le medicine negli ospedali e nelle farmacie, che hanno tentato uno sciopero per protestare contro i sempre più scarsi rifornimenti. Siamo al punto drammatico in cui amici e parenti che rientrano da un viaggio all’estero tornano con scatole di ibuprofene da distribuire al posto di dolci o profumi. 

 

Il malcontento della popolazione cresce assieme alla rassegnazione. Pochi giorni fa, i video dei fasti esagerati del matrimonio della figlia di un alto membro di Hezbollah, fatti circolare dai media stranieri, hanno innescato rabbia e risentimento sui social media e sulla stampa nazionale. Il Partito di Dio, i suoi ministri, le sue milizie armate sostenute e finanziate dall’Iran, sono state uno dei principali obiettivi delle proteste di piazza del 2019, contro il clientelismo confessionale e la corruzione delle élite. A due anni da quei cortei, servono riforme strutturali e aiuti internazionali, serve soprattutto un governo che manca da un anno intero. Da pochi giorni c’è un nuovo primo ministro designato, il miliardario Najib Mikati, incaricato di formare un esecutivo.

 

Prima di lui, l’ex premier Saad Hariri ha abbandonato il compito, dopo mesi di tentativi, accusando il presidente Aoun e i suoi alleati di Hezbollah di tenere in ostaggio il Paese, bloccando la nomina dei ministri a causa di richieste e pretese su poltrone chiave come quella delle Finanze. E infatti, gli antichi aiuti economici del Golfo hanno smesso di arrivare: l’Arabia Saudita non è disposta a elargirli a esecutivi che ospitano il partito armato di Hezbollah, alleato del loro rivale iraniano. Il Fondo monetario internazionale ha legato gli aiuti a riforme necessarie e imprescindibili per salvare il Paese, cui nessuno però lavora. L’Europa pensa a sanzioni contro funzionari e politici libanesi, contro chi inceppa la democrazia, blocca la formazione del governo, congela lo Stato di diritto. I burocrati di Bruxelles non hanno fatto nomi, ma chi nei giorni scorsi ha manifestato a Beirut – bare vuote trasportate sulle spalle, sulle labbra i nomi di amici e familiari uccisi dall’esplosione al porto – non si aspetta trasparenza. A decine hanno gridato sotto l’abitazione del ministro dell’Interno ad interim, Mohamed Fahmy, che aveva appena rifiutato la richiesta del tribunale incaricato delle indagini di interrogare sui fatti del 4 agosto scorso il generale Abbas Ibrahim, capo dell’intelligence, vicino a Hezbollah. E di sollevare l’immunità parlamentare di deputati e ministri.

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