L'illogistica di Amazon

Daniele Raineri

La logistica è un settore cruciale e l’azienda americana è diventata un modello per le consegne veloci. Ma la gestione di massa dei suoi lavoratori con la tecnologia ha grossi problemi, conviene studiarli

Ieri e oggi sono gli Amazon Prime Day, una ricorrenza speciale per l’azienda americana, che decide un paio di volte all’anno di offrire molte delle merci che tratta a prezzo ridotto. Un sindacato tedesco ha chiesto ai lavoratori di Amazon di organizzare scioperi proprio adesso, per sfruttare il momento di visibilità per loro e di vulnerabilità per l’azienda.  Sono giorni speciali anche perché il New York Times ha appena pubblicato un’inchiesta durata molti mesi (frutto di duecento interviste con dipendenti ed ex dipendenti) che rivela come l’azienda americana abbia tentato di gestire la massa dei suoi lavoratori con la tecnologia e l’intelligenza artificiale. L’esperimento è andato male, ci sono stati problemi e fallimenti. E la cosa ci riguarda anche qui, non soltanto perché in Italia ci sono tantissimi clienti Amazon, ma anche perché l’azienda americana è un modello dell’organizzazione del lavoro nel campo della logistica al quale guardano in molti. E’ un precursore. Ma in questi giorni ci sono stati episodi gravissimi proprio nel settore logistica italiano: un gruppo di lavoratori è stato picchiato a Tavazzano, vicino Lodi, mentre protestava per le condizioni e un sindacalista è stato ucciso da un camion a Biandrate, nel novarese, mentre partecipava a un’altra protesta. Amazon è sulla rotta per diventare il più grande datore di lavoro privato negli Stati Uniti, quello che fa e quello che sbaglia dev’essere studiato. 

 

L’inchiesta del New York Times si è svolta tutta al JFK8, il colossale centro di smistamento costruito da Amazon a New York, ma sappiamo che la procedura è disegnata per essere replicabile all’infinito in tutti i centri di smistamento e ovunque, quindi è facile sostenere che i problemi scoperti a New York sono problemi per tutti. Il primo guaio è che le reti automatizzate per gestire i lavoratori sono molto peggio di quelle per gestire le consegne. Il sistema ti dice che puoi prenderti un permesso, ma poi lo stesso sistema ti avverte che ti ha contato come assente dal lavoro e quindi ti licenzia. E se provi ad avvertire dell’errore non c’è nessuno in carne e ossa che ti risponde e devi ricorrere a una sequenza di menù automatizzati che in teoria dovrebbe aiutarti a sistemare tutto e che in pratica fa da muraglia insormontabile. Amazon sa con precisione dov’è il pacchetto che ti deve consegnare e che ti arriverà nel primo pomeriggio, ma non si ricorda se il lavoratore ha oppure no una ragione valida per non essere al posto di lavoro (per esempio: notifica per errore al lavoratore di presentarsi al lavoro, anche se il sistema sa che è ricoverato per colpa del Covid-19). Paul Strop, un manager che ha contribuito a creare il motore informatico che fa funzionare Amazon, dice che quando è passato dal reparto logistica al reparto risorse umane “sembrava di stare in un’azienda diversa”. 

 

Un secondo guaio è che i sistemi per ottimizzare le performance dei lavoratori si affidano a parametri che non riescono a distinguere i casi. Il parametro più conosciuto anche fuori è il Tot, Time off tasks, e misura il tempo consumato dal lavoratore in attività che non sono il lavoro. Può essere che stia rimettendo in moto un macchinario che si era inceppato o che stia parlando con i colleghi, in entrambi i casi il sistema notifica al supervisore il valore del Time off task e sta al supervisore capire la differenza. Le linee guida dicono di non usare il parametro in modo punitivo e di andare a controllare soltanto il peggiore di ogni turno, ma il sistema fallisce. Dayana Santos, una lavoratrice di 32 anni che a detta dei suoi capi faceva a gara con i colleghi per vedere chi era più veloce sul lavoro, un giorno è arrivata in ritardo per colpa dell’autobus. E’ finita in un reparto diverso da quello abituale, non aveva una postazione sua, l’ha cercata nei corridoi. E’ stata licenziata perché il valore del suo Time off tasks quel singolo giorno era stato troppo alto. 


L’inchiesta offre un sospetto ed è che questi fallimenti tecnici siano un’emanazione delle idee del capo e fondatore Jeff Bezos: i lavoratori devono durare poco, perché più durano e meno avranno voglia di impegnarsi, la longevità sullo stesso posto di lavoro “è una marcia verso la pigrizia”. Bezos è attento alla pigrizia umana, è per questo che sul suo sito si può comprare un prodotto con un solo clic. Dall’altra parte però il risultato è che Amazon ha ogni anno un turnover dei dipendenti del centocinquanta per cento. Vuol dire che sostituisce l’intera forza lavoro in meno di un anno e se c’è gente che lavora da molti anni ad Amazon significa che è compensata da altri che durano soltanto poche settimane. E i manager sono preoccupati, perché il serbatoio di lavoratori per Amazon non è infinito e anzi potrebbe esaurirsi presto. Un milione di nuovi dipendenti ogni otto mesi e soltanto negli Stati Uniti non sono facili da trovare. Ad aprile c’è stato un referendum in uno stabilimento in Alabama per creare il primo sindacato di lavoratori Amazon, ma è fallito – perché per molti l’azienda ha offerto un lavoro in tempi di emergenza. Ma come dice Dave Jamieson, un giornalista specializzato dell’Huffington Post, organizzare un sindacato in un posto di lavoro dove tutti i cinquemila lavoratori cambiano nel giro di un anno “è come organizzarlo sulle sabbie mobili”. 
 

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)