Il costo della propaganda cinese sul virus

È la Cina a politicizzare tutto

Giulia Pompili

Pechino usa la tattica: “E allora i vostri laboratori?”, ma inizia a essere controproducente

Alla richiesta di Joe Biden di un’indagine più accurata sull’origine della pandemia, ieri ha risposto il falco Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, che ha domandato retoricamente ai giornalisti come fa l’Amministrazione americana a dormire la notte con tutti quei morti di Covid sulla coscienza, e poi ha tirato fuori un vecchio cavallo di battaglia della propaganda di Pechino: “Quali segreti si nascondono a Fort Detrick  e negli oltre duecento biolaboratori americani nel mondo? Quando gli Stati Uniti rilasceranno dati e informazioni dettagliate su certe vicende?”. L’accusa contro l’accusa, dare sempre una versione alternativa dei fatti, ridicolizzare chi mette  in discussione il dogma della propaganda è una tattica usata di frequente dalla Cina. In questo caso, però, le controaccuse di Pechino iniziano a traballare. Per esempio quelle contro Fort Detrick  – l’istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito americano – dimostrano perfettamente la differenza di modelli, e il costo della non trasparenza di Pechino nel caso di Wuhan. 

 


Nell’agosto del 2019 il governo americano ha sospeso le ricerche su alcuni microrganismi   pericolosi, come il virus ebola, perché nel laboratorio di livello 4 di Fort Detrick “il sistema di decontaminazione delle acque” non soddisfaceva gli standard di sicurezza. C’è stata un’inchiesta delle istituzioni, i giornalisti hanno fatto il loro lavoro, hanno intervistato le persone coinvolte, sono stati pubblicati i risultati: c’è stata trasparenza, nei limiti di un laboratorio dove si studiano agenti che possono essere usati anche per scopi terroristici.


La sicurezza di certi laboratori in America era stata alzata ancora di più nel 2014, dopo che erano stati pubblicati i numeri degli incidenti nei laboratori di sicurezza, che quasi sempre avevano comportato la decontaminazione totale dell’area e il rischio di contaminazione dei dipendenti: erano stati soltanto 16 nel 2004, erano passati a 128 nel 2008 fino a 269 nel 2010. Le polemiche avevano portato il governo a un ripensamento dell’intero sistema di sicurezza. C’è ben poco di oscuro e segreto in certi laboratori, che servono per studiare le malattie infettive più gravi e curarle: è la loro gestione che deve essere trasparente perché solo così possiamo imparare dagli errori e sperare di non ripeterli.

 


In America il dibattito sull’“incidente del laboratorio” di Wuhan ha ripreso forza  anche dopo un articolo pubblicato da Science il 14 maggio scorso, dove quasi venti autorevoli scienziati chiedono più trasparenza alla Cina sul laboratorio. Tra gli autori dell’articolo c’è anche Ralph S. Baric dell’Università della Carolina del nord, che per molti anni ha lavorato sui virus Sars insieme con Shi Zhengli, la virologa cinese che dirige il laboratorio di livello 4 dell’Istituto di virologia di Wuhan. Nell’articolo scrivono che abbiamo bisogno di conoscere l’origine del Covid, per la sicurezza mondiale, ma che il primo e unico report condotto dalla missione congiunta dell’Oms-Cina a Wuhan non è attendibile: “Le informazioni, i dati e i campioni per la prima fase dello studio sono stati raccolti e riassunti dalla metà cinese del team; il resto del team si è basato su quelle analisi”. Non solo: nessuno sa perché “sebbene non ci fossero risultati a sostegno di uno spillover naturale o di un incidente di laboratorio”, il team abbia valutato lo spillover di origine animale come “il più probabile”. Insomma, le due teorie “non sono state prese in considerazione in modo equilibrato”.


Il fatto che non ci sia stata finora un’indagine adeguata sull’origine della pandemia è il prezzo che tutto il mondo deve pagare affinché la Cina non si senta accusata politicamente. Ma il suo continuo rovesciare le critiche sta cominciando a essere  controproducente, e non fa che minare il suo obiettivo di costruirsi una credibilità come potenza responsabile. 

 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.