Crematori a cielo aperto a Delhi, in India (LaPresse)

gli effetti del covid

La catastrofe indiana

Carlo Buldrini

Mentre il governo di Narendra Modi pensa a rifare il look alla capitale, i contagi sono fuori controllo e le persone muoiono in attesa di medicine e ossigeno. Il fallimento della “democrazia dei privilegi”
 

In India, i morti per Covid-19 continuano a essere più di 4 mila giorno. A detta dell’Organizzazione mondiale della sanità, nelle ultime due settimane le infezioni da coronavirus in India sono state quasi la metà del numero complessivo dei casi mondiali. L’epicentro della pandemia si è spostato dallo stato del Maharashtra a Delhi. Una cappa di dolore sovrasta la capitale indiana, come il fumo che esce dai suoi crematori. La città è sgomenta. Mancano i posti letto negli ospedali, manca l’ossigeno per uso medico, mancano i medicinali. La gente muore nelle case, nei parcheggi degli ospedali, per strada. Un filmato che gira sui social network mostra la folla che si accalca per poter ammettere un parente in ospedale.

 

Poco distanti, le autoambulanze scaricano malati sdraiati su barelle con le ruote. I barellieri li parcheggiano sui marciapiedi nella vana attesa che si liberi un posto in corsia. Molti muoiono così. Su barelle analoghe, escono dall’ospedale cadaveri coperti con un lenzuolo bianco. Le stesse ambulanze li porteranno in uno dei tanti crematori della città. Prima di questa nuova ondata, la situazione a Delhi sembrava sotto controllo. A metà febbraio, su 60.000 test giornalieri, i casi di Covid erano stati un centinaio. I morti erano solo uno o due al giorno. A metà marzo l’“erre con zero” (R0), l’indice di riproduzione del virus, è salito a 1,5. I casi giornalieri di Covid sono diventati circa 700. Dopo il 5 aprile, l’R0 a Delhi è salito a 2. Il numero dei morti è aumentato drammaticamente. I decessi quotidiani sono adesso più di quattromila.

 

Le immagini delle pire funerarie indiane hanno fatto il giro del mondo. Delhi non ha più spazio a sufficienza per le cremazioni. I 23 crematori della città bruciano cadaveri 24 ore al giorno. Negli ultimi dieci giorni, nel solo crematorio di Nigambodh Ghat sono stati cremati 1.460 corpi. Nel crematorio Dayanand Muktidham, per cinque giorni consecutivi, hanno cremato più di 50 corpi. La capacità del crematorio è di soli 30. Il responsabile del luogo ha fatto domanda all’amministrazione comunale per poter avere un po’ di terreno sulle rive del fiume Yamuna. Ha trovato spazio per 20 nuove pire funerarie. “Le aumenteremo a cento nel prossimo mese”, dice. Il divario tra il numero ufficiale dei morti e quello delle persone effettivamente cremate è sempre più evidente. Nei crematori manca la legna. Ne servono almeno 300 chili per bruciare un solo corpo. Il 25 aprile il Times of India ha riportato la notizia che il Dipartimento forestale di Delhi ha dato il permesso di abbattere 200 alberi per rifornire di legna i crematori.


Qui manca anche il personale. A cremare i morti sono per lo più gli appartenenti alla casta intoccabile dei Chandala. Lavorano dalle 12 alle 14 ore al giorno. Quasi nessuno indossa la tuta protettiva. Molti di questi Chandala, per paura dei contagi, se ne sono andati. Nel crematorio di Panchkuian road sono rimasti solo otto lavoratori, ma i corpi continuano ad arrivare. C’è poi la mafia dei sacerdoti brahmini addetti ai riti funebri. Senza la loro autorizzazione, la pira non può essere accesa. Sono loro a recitare gli “shloka”, i versi sanscriti, richiesti dal rituale. C’è chi ha dovuto pagare 1.700 rupie al brahmino di turno. Questi ha intascato i soldi, si è limitato a dire “Jai Shri Ram” e ha acceso la pira. Manca lo spazio anche nei cimiteri dei musulmani. Dice il supervisore del Jadid Qabristan vicino a Delhi Gate: “Fa male dover respingere i parenti che portano un defunto dopo che, per ore, hanno fatto il giro della città in cerca di un letto d’ospedale o di una bombola di ossigeno”.

 

L’intero sistema sanitario della capitale è al collasso. Fino agli anni Ottanta tutti gli ospedali indiani erano statali. Queste strutture ospedaliere davano assistenza all’intera popolazione. Le attrezzature mediche non erano sofisticate, ma tutto era compensato dalla bravura del personale sanitario. I medici indiani sono tra i più bravi del mondo. L’All India Institute of Medical Sciences di New Delhi, inaugurato da Nehru negli anni Cinquanta, godeva di un’ottima reputazione internazionale. A partire dal 1991, con la “liberalizzazione”, la sanità indiana è radicalmente cambiata. A Delhi sono sorti dappertutto ospedali privati. Assicurano, a chi se lo può permettere, “servizi di prim’ordine”. I finanziamenti pubblici agli ospedali statali sono progressivamente diminuiti e queste strutture sono lentamente andate in disuso. La conseguenza è stata che, in India, solo chi ha i soldi può sperare in una assistenza sanitaria efficiente. Ma, oggi, la pandemia non risparmia nessuno. La “democrazia dei privilegi” che vigeva negli ospedali indiani, dove c’era sempre un letto libero nel caso un ministro, un importante industriale, una star di Bollywood o un campione di cricket ne avessero bisogno, non funziona più. Tutti i posti sono adesso occupati. In tutti gli ospedali manca l’ossigeno. La corsa per accaparrarsi al mercato nero le bombole di ossigeno per uso personale, ha lasciato gli ospedali senza forniture.

 

Pochi giorni fa, in due prestigiosi ospedali privati della capitale, il Batra Hospital e lo Sri Ganga Ram Hospital, sono morti rispettivamente 12 e 25 pazienti per mancanza di ossigeno. Il dottor Vivek Rai, che lavorava nel reparto di terapia intensiva di un altro ospedale privato, il Max Super Speciality Hospital, si è suicidato nella propria abitazione. Non sopportava più di vedere i pazienti morire soffocati dal coronavirus. Dal 16 aprile, a Delhi, è in vigore un rigido lockdown. Tutte le attività sono ferme. Nelle strade circolano solo le autoambulanze e i mezzi privati diretti verso gli ospedali o i luoghi delle cremazioni. Solo nei pressi di Rajpath, il viale cerimoniale che attraversa il cuore di New Delhi, è in corso un’attività febbrile. Operai scavano fossati e portano via la terra con recipienti di metallo che si caricano sulla testa. È l’inizio dei lavori del grande piano del primo ministro Narendra Modi di riqualificare la “Central Vista”. Fu re Giorgio V, nel 1911, a decidere di trasferire la capitale dell’India britannica da Calcutta a Delhi. La nuova città voluta dagli inglesi doveva essere ariosa e luminosa, lontana dai “miasmi” che caratterizzavano invece Shahajahnabad, la città vecchia. L’architetto Edwin Lutyens si ispirò alle teorie di Ebenezer Howard e alla sua città giardino.

 

La Nuova Delhi sorse caratterizzata da spaziosi giardini, parchi e ampi viali alberati. Suo asse portante era la “Central Vista”, i tre chilometri rettilinei che univano l’arco di pietra dell’All India War Memorial (oggi “India Gate”) con l’imponente residenza del viceré sulla Raisina Hill. Con la fine del colonialismo britannico, l’India indipendente riutilizzerà la Central Vista. Gandhi, che rifiutava la pomposità e lo sfarzo, suggerì di trasformare la residenza del viceré in un ospedale. L’edificio diventerà invece “Rashtrapati Bhavan”, la residenza del presidente della Repubblica indiana. La Central Vista sarà il “corridoio del potere” dell’India indipendente. Negli storici edifici lasciati dagli inglesi, trovarono sede gli uffici del governo e del Parlamento indiano. L’intera zona costituiva un vanto della nuova Repubblica, un’area inviolabile, un patrimonio architettonico da preservare. Su tutto questo, adesso, Narendra Modi si accinge a versare una gigantesca colata di cemento. Il piano di riqualificazione della Central Vista prevede la costruzione di undici edifici fra cui un nuovo Parlamento, la residenza del primo ministro e un segretariato centrale che ospiti tutti i ministeri. Si dovrà trovare posto anche per il parcheggio di 20.000 automobili degli impiegati governativi. Il progetto priverà i cittadini di Delhi di 35 ettari di spazio pubblico all’aperto. Duemila alberi di “jamun” saranno abbattuti. La città, che già soffoca per il suo inquinamento, perderà così un prezioso polmone verde. L’intero piano simboleggerà “Naya Bharat”, la Nuova India di Narendra Modi. Sarà completato nel 2024 quando nel paese si terranno le nuove elezioni politiche. Il costo previsto dell’opera è di “20.000 crore”, 200 miliardi di rupie. Una follia. I partiti di opposizione sono insorti. “Uno spreco criminale in piena pandemia”, hanno detto. Ma il progetto va avanti. Il Central Public Works Department lo ha inserito nella lista dei “servizi essenziali”. Il quotidiano Times of India ha scritto che la residenza del primo ministro sarà completata nel dicembre 2022. Sarà il primo edificio a vedere la luce. Così, mentre la popolazione di Delhi conta i suoi morti, Narendra Modi è impegnato a costruire monumenti per la sua gloria e la sua vanità.

 

Le gravissime responsabilità del primo ministro e del suo governo nell’attuale crisi sanitaria in cui è sprofondata l’India sono ormai evidenti a tutti. Navjot Dahiya, vicepresidente della Indian Medical Association, ha definito il primo ministro Narendra Modi un “superspreader”, un superdiffusore del virus, per aver effettuato giganteschi comizi elettorali in West Bengal e avere permesso lo svolgersi ad Haridwar del festival religioso del Kumbha Mela. Tutto questo in piena seconda ondata della pandemia. “Modi e il suo governo sono una tossica combinazione di incompetenza e autoritarismo” scrive lo storico indiano Ramachandra Guha. Il populista Modi non crede nella scienza. Nel mese di marzo dell’anno scorso, quando il coronavirus si stava ormai diffondendo in tutta l’India, il primo ministro con un messaggio televisivo chiese alla popolazione di “battere le mani, percuotere le casseruole, soffiare nei corni di conchiglia, suonare campanelli, il tutto per cinque minuti, in segno di unità nella lotta contro la pandemia”. Poche settimane dopo, in un nuovo messaggio televisivo alla nazione, Modi disse: “Il 5 aprile (2020) voglio che tutti voi, alle 9 di sera e per 9 minuti, dopo aver spento la luce nelle vostre case, accendiate una candela, o una torcia, o il flash dei vostri cellulari. Sperimenteremo così il superpotere della luce che illuminerà la nostra lotta contro il coronavirus”. 

 

Oggi, a un anno di distanza, sull’intero paese si è abbattuta una calamità di proporzioni mai viste nella storia dell’India indipendente. Gli esperti dicono che il picco della seconda ondata arriverà solo alla fine di maggio. E non sarà finita. K. Vijay Raghavan, il principale consulente scientifico del governo, avverte che, dopo che gli attuali tassi di infezione saranno diminuiti, bisogna tenersi pronti per una terza ondata. Dice: “Una terza fase è inevitabile dato l’alto livello di circolazione del virus”. La gente in India si sente abbandonata. Ha la sensazione che il governo abbia ormai rinunciato a intervenire per proteggere la vita dei suoi cittadini. Ashwani Kumar, già ministro della Giustizia nel governo di Manmohan Singh, scrive nel sito di notizie indiano The Wire: “Da cittadini orgogliosi di far parte di una nazione che aspira a sedersi al tavolo delle grandi potenze mondiali, siamo diventati dei mendicanti. Mendicanti di un ultimo respiro affannoso, di un ventilatore polmonare, di un letto d’ospedale, di medicine, della possibilità di essere vaccinati su basi non discriminatorie, di un mezzo di trasporto per i malati e i defunti, di informazioni mediche, di una bombola di ossigeno da comprare in tempo per sperare di poter sopravvivere. Tutto questo ci ha privati della dignità che definisce la condizione umana”.

 

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