“I governi locali sono incentivati ad aumentare il loro numero di cittadini in modo da poter ottenere più risorse”, ha detto una fonte al Ft (Olycom) 

Il declino del Dragone

Giulia Pompili

La propaganda di Pechino dice che i dati sulla popolazione non sono poi così allarmanti. Ma la Cina sta invecchiando troppo velocemente. Quarant’anni di figli unici e le differenze con le democrazie

In uno degli ultimi colossal della Marvel, il cattivissimo Thanos raccoglie tutte le gemme necessarie per attivare il “guanto dell’infinito” e dare vita al suo progetto: eliminare il 50 per cento della popolazione dell’universo, perché l’altra metà possa vivere in pace, senza dover lottare per le limitate risorse a disposizione. Thanos vuole il progresso, il benessere degli esseri viventi, insomma teoricamente sarebbe spinto da nobili ambizioni. Però è Thanos, cioè un supercattivo. 

 

L’esempio della Marvel è semplificatorio, ma è un buon inizio per spiegare come ha funzionato per un lungo periodo di tempo, soprattutto in Asia orientale, la politica di programmazione familiare, e come sulla base di un obiettivo finale comune – il benessere collettivo – diversi governi abbiano preso decisioni sbagliate, autoritarie, perfino controproducenti, entrando nelle camere da letto dei cittadini fino a trasformarle in un luogo politico. 

 

Adesso, a essere diventata politica, è la crisi demografica. Per la Cina è fuori discussione ammettere il fallimento della politica del figlio unico, e in generale di oltre quarant’anni di pianificazione familiare, ora che si comincia a sentire il pericolo di una popolazione in declino. Il paese più popoloso del mondo potrebbe essere presto sorpassato dall’India – sua acerrima nemica – per numero di cittadini. 

 

La Cina invecchia sempre di più, i nuovi nati sono sempre di meno, ma il declino demografico in realtà è   un problema che condivide con altre economie  sviluppate come Giappone, Corea del sud ma anche Stati Uniti ed Europa. Qual è la differenza, allora? Quello che analisti e scienziati cercano di spiegare da anni è che lo sviluppo economico di un paese si accompagna sempre a un declino della popolazione: i motivi alla base di questi due fenomeni paralleli sono da decenni oggetto di discussione, di ricerca accademica e di saggi. Un ruolo fondamentale lo svolge la trasformazione della classe media, le cui priorità, con lo sviluppo della società, cambiano. Ma a  che prezzo si esce dalla povertà, e a che prezzo si sostiene lo sviluppo della società, questo lo decide chi è nella posizione di prendere le decisioni, creare le regole, che nelle democrazie viene scelto da chi quelle decisioni le subisce. Dunque il problema resta sempre lo stesso: scegliere a quale modello ispirarsi, se a quello che mette al centro l’uomo e le sue libertà, oppure a quello autoritario, che regola decide e impone. 

 

A fine aprile il Financial Times ha pubblicato in esclusiva un articolo nel quale anticipava i risultati dell’ultimo censimento cinese – uno dei più grandi e importanti mai eseguiti, con sette milioni di persone censite. Il report avrebbe dovuto essere pubblicato ad aprile dall’Ufficio nazionale di statistica di Pechino, ma era stato rimandato più volte. L’articolo del Financial Times sottolineava che la Cina avrebbe annunciato una contrazione della popolazione per la prima volta dagli anni Cinquanta, dopo il Grande balzo in avanti di Mao Zedong e le conseguenze disastrose sull’economia cinese, tra cui la Grande carestia cinese, con milioni di persone morte di fame. La politica cinese da tempo s’interroga sulla questione: già all’inizio di marzo, durante le ultime Due Sessioni, l’appuntamento politico più importante del Partito comunista, si era parlato di demografia. Nel 2019 il tasso di fertilità in Cina è arrivato a 1,47 figli per donna – poco sopra al Giappone, che ha 1,42 nascite per donna, e dove il problema demografico è preso da anni molto seriamente.  Con un tasso di fertilità così basso, tutti si aspettavano un declino repentino della popolazione. Il Financial Times spiegava che il motivo per cui i risultati del censimento cinese si stavano facendo attendere così tanto era per via del fatto che la materia è particolarmente sensibile, e i vari livelli del Partito hanno bisogno di tempo per organizzare una strategia di comunicazione adatta. “La situazione reale potrebbe essere anche peggiore”, ha scritto il reporter economico del bureau di Pechino Sun Yu. In un rapporto pubblicato ad aprile, la Banca centrale cinese ha scritto che probabilmente le stime del governo centrale sul tasso di fertilità delle donne cinesi sono sovrastimate: una fonte anonima del governo di Pechino ha detto al Financial Times che “tali sovrastime derivano in parte dal fatto che il sistema fiscale usa i dati sulla popolazione per decidere i bilanci locali, anche quelli per l’istruzione e la sicurezza pubblica. ‘I governi locali sono incentivati ad aumentare il loro numero di cittadini in modo da poter ottenere più risorse”, ha detto la fonte al Financial Times. Più bocche hai da sfamare, più ti sosteniamo economicamente, e i funzionari locali devono averne approfittato.

 

Forse pressato dalla notizia anticipata dal quotidiano londinese, l’Istituto nazionale di statistica cinese ha pubblicato i dati sul censimento praticamente subito dopo: non c’è nessuna emergenza, ha detto Ning Jizhe, autorevole economista a capo dell’Istituto. La popolazione cinese non è scesa sotto il miliardo e quattrocentomila, come anticipato dal Financial Times, ed è anzi cresciuta rispetto all’ultimo censimento di dieci anni fa. Ma di troppo poco: il tasso crescita medio è dello 0,53 per cento l’anno.  Ma sono gli altri dati, quelli nel dettaglio, a spiegare meglio verso quale tipo di emergenza sta andando il Dragone. 
Il numero di bambini in Cina è stato di dodici milioni nel 2020, il 18 per cento rispetto ai 14,6 milioni del 2019, mentre la popolazione over 60 è cresciuta del 5,4 per cento. Meno bambini e più anziani significa più spesa pensionistica e di welfare, come dimostra il Giappone, e sempre meno forza lavoro: una combinazione molto preoccupante per la crescita economica. Il 12 maggio, durante la quotidiana conferenza stampa del ministero degli Esteri di Pechino, perfino la portavoce Hua Chunying ha ammesso che “i dati indicano alcuni problemi strutturali nella demografia cinese, tra cui il calo della popolazione in età lavorativa e del numero di donne in età fertile, il problema dell’invecchiamento sempre più grave, il calo del tasso di fertilità totale e il basso numero di nascite”. La portavoce della propaganda di Pechino ha però aggiunto che i media occidentali che parlano di “crisi demografica” sbagliano, perché il problema della bassa natalità ce l’ha anche l’America: “Il quattordicesimo piano quinquennale ha chiarito che dobbiamo raggiungere un tasso di fertilità appropriato e ridurre i costi della gravidanza, dell’educazione e dell’istruzione per liberare il potenziale delle politiche per la natalità”, ha detto Hua, confermando quello che tutti gli osservatori si aspettano, e cioè delle azioni concrete da parte del governo cinese. 

 

Secondo chi ha studiato i dati del censimento, perfino per la stampa cinese, dal Global Times a Caixin, lo sviluppo economico e il benessere collettivo che fa spostare le priorità della società c’entra poco con questo declino. Perché il punto è che la Cina non sarebbe mai arrivata ai dati di oggi se per più di quarant’anni non avesse applicato la rigidissima politica del figlio unico. Quando nel 2016 la regola che imponeva a ogni famiglia di avere un solo figlio, introdotta da Deng Xiaoping nel 1979 per riorganizzare la crescita demografica, è diventata la politica dei due figli, la Cina si aspettava un aumento delle nascite. Aumento che però non c’è stato. La pianificazione familiare è stata uno choc sociale per molti aspetti, ha fatto crescere un’intera generazione nel culto del figlio unico e in una società a maggioranza maschile, e sulle sue conseguenze sociali c’è un’ampia letteratura, tra cui il film del 2019 “One Child Nation” diretto da Nanfu Wang e Jialing Zhang. 

 

C’è chi non la pensa così. I sostenitori della politica del figlio unico (anche occidentali) dicono che è grazie a quelle decisioni che è stato possibile lo sviluppo collettivo del Dragone. La parola chiave è “xiaokang”, alla base del Sogno cinese di Xi Jinping: è tradotta come “società moderatamente prospera”, e significa, per dirla come la direbbe Dibba, l’abolizione della povertà. Se le bocche da sfamare sono troppe, ne facciamo nascere la metà. Ma di nuovo bisogna interrogarsi sul prezzo pagato dalla società e dagli individui.

 

Quella della pianificazione familiare era un’idea diffusa in passato, soprattutto nei paesi di tradizione confuciana: anche Giappone e Corea, per fare due esempi vicini, sono entrati nelle camere da letto dei loro cittadini quando il problema del sovraffollamento delle città e l’eccessivo numero di figli da parte delle famiglie rendeva difficile lo sviluppo programmato. Dopo la Guerra di Corea, ogni donna coreana faceva  di media più di sei figli. Il governo sudcoreano agì attraverso la persuasione, non con l’imposizione: nel 1961 iniziò una campagna per insegnare alle giovani coppie l’uso dei contraccettivi, i poster e le pubblicità sui giornali mostravano famiglie di quattro persone, con soli due figli, felici e soddisfatti della loro condizione economica. In meno di diciotto anni la media di figli per donna arrivò a 3, e però continuò a scendere. Mentre la popolazione diminuiva e la Corea del sud si trasformava in una delle più promettenti economie del mondo, nel 1984 il tasso di fertilità delle donne scendeva sotto il 2,1 – che è un numeretto magico, perché significa che non c’è più sostituzione tra nuovi nati e decessi, in pratica la popolazione di lì a breve inizia a diminuire. Nel 2018 il tasso di fertilità in Corea del sud è sceso sotto l’1, a 0.98, il punto più basso sin dagli anni Sessanta. All’inizio degli anni Duemila il governo di Seul ha tentato ogni strategia per cercare di risollevare la natalità del paese, ma convincere le persone a fare figli è sempre più difficile. 

 

Lo sa bene il Giappone, considerato “il paese più vecchio del mondo”, che da anni studia motivi e soluzioni di questo crollo delle nascite. Quest’anno i ragazzi sotto i quindici anni in Giappone sono diminuiti ancora rispetto all’anno precedente, ed è il quarantesimo anno consecutivo che diminuiscono. A oggi, i ragazzini sono l’11,9 per cento della popolazione: la percentuale più bassa del mondo. Subito dopo c’è la Corea del sud, dove gli under 15 sono il 12,2 per cento della popolazione, e poi l’Italia (l’Italia!) con il 13,3 per cento. D’altra parte, gli over 65 in Giappone rappresentano il 28,9 per cento della popolazione. La programmazione familiare nipponica inizia nel Dopoguerra, quando il governo centrale capisce che la sovrappopolazione è un problema per la ricostruzione e lo sviluppo. Si cominciano a incentivare la sterilizzazione e gli aborti: non sono obbligatori, ma proposti come alternativa raccomandata: secondo diversi studi disponibili online, tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta il declino della popolazione nipponica è da ricondurre per il 70 per cento agli aborti. Anche nel paese del Sol levante la programmazione familiare e il controllo delle nascite sono uno choc sociale. Mentre i nuovi nati diminuiscono sempre di più, e il Giappone corre economicamente, l’aspettativa di vita diventa tra le più alte del mondo: nel 2005 il tasso di fertilità delle donne giapponesi arriva al record storico negativo di 1,26. La trasformazione sociale è evidente, perché diminuiscono i matrimoni, in generale le coppie e addirittura l’interesse nei rapporti sessuali. Il governo di Tokyo, insieme con i governi delle prefetture, da anni cerca di incentivare la natalità, ma come ha spiegato l’ex premier Shinzo Abe, il problema è che la risposta del governo non può essere limitata al sostegno economico, perché la crisi è complessa ed è provocata da numerosi fattori: c’è bisogno di ristrutturare la società. Per fare un esempio, in Corea del sud uno dei motivi del crollo dei matrimoni è l’impossibilità per i giovani di accedere all’acquisto della prima casa. Attorno alla capitale Seul i prezzi delle abitazioni sono fuori controllo, ed è difficile per la maggioranza delle coppie potersi permettere anche solo un affitto. Figuriamoci un affitto con stanza per eventuale figlio. 

 

Sono problemi comuni nei paesi più sviluppati. Ma la differenza tra la Cina, il Giappone e la Corea del sud riguarda il modello che scelgono per affrontare il problema demografico oggi. Tokyo e Seul studiano soluzioni, aprono alla popolazione straniera, provano a sostenere chi decide di fare figli. A Pechino funziona al contrario: per quarant’anni vi abbiamo detto quanti figli dovevate fare, e ora continuiamo a farlo, sempre nel nome del progresso della popolazione, mai dell’individuo. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.