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Tanta voglia di indipendenza in Galles

Gregorio Sorgi

E' cresciuta molto la spinta per un’exit dal Regno Unito, soprattutto tra i giovani che si pongono nuove domande identitarie. L’impatto politico della pandemia e l’esempio dei cugini scozzesi

Fino a qualche anno fa in Galles anche i sassi votavano per il Labour. In alcune città post industriali del sud est gallese – il cosiddetto “muro rosso” – le strade e gli edifici sono ancora intitolati ai vecchi eroi del laburismo. Per molti anni la massima di Peter Mandelson, lo stratega del New Labour blairiano, “i gallesi del sud voteranno sempre per il Labour perché non possono andare altrove”, aveva un grande fondo di verità. In ogni elezione generale, il Labour gallese ha mandato una pattuglia massiccia di deputati a Westminster, lasciando le briciole ai conservatori e agli indipendentisti di Plaid Cymru. Dal 1999, l’anno in cui per la prima volta si è votato per l’Assemblea nazionale gallese (il Senedd), il Labour ha dominato anche il Parlamento di Cardiff, ed è stato il perno di ogni governo locale. Eppure, dopo essere già stato sconfitto nelle roccaforti del nord dell’Inghilterra, il Labour potrebbe perdere terreno anche in Galles nel voto del 6 maggio. Il partito del premier Mark Drakeford, un tranquillo ex accademico, è schiacciato tra i conservatori e gli indipendentisti gallesi e, secondo alcuni sondaggi, potrebbe perdere seggi e ritrovarsi senza la maggioranza assoluta nell’assemblea di Cardiff. Lo scenario più probabile dopo le elezioni è una grande coalizione tra il Labour e Plaid Cymru, che aprirebbe un nuovo fronte nella battaglia di Downing Street per salvare il Regno Unito. Il Galles diventerà la nuova Scozia?

 

Gli indipendentisti di Edimburgo sono un modello per i fratelli minori di Cardiff. Molti osservatori gallesi concordano sul fatto che il loro futuro dipenderà dell’esito della battaglia scozzese. “Se la Scozia esce dal Regno Unito, questo cambia completamente il dibattito gallese dando una grossa spinta a Plaid Cymru”, ci spiega Theo Davies-Lewis, un commentatore politico per il sito National Wales. “Al contrario, se la Scozia resta, possiamo dire addio a ogni speranza autonomista”. Secondo i sondaggi il sostegno per la secessione del Galles oscilla tra il 30 e il 40 per cento, al pari della campagna per l’indipendenza scozzese prima del referendum del 2014. In entrambi i casi il fronte anti britannico va forte tra i giovani – per la prima volta il Galles ha esteso il diritto di voto ai sedicenni – che sono cresciuti nell’era post devolution e sono abituati ad avere un Parlamento forte e assertivo a Cardiff. Il sostegno per l’indipendenza gallese si aggira attorno al sessanta per cento nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni mentre l’ottanta per cento vorrebbe trasferire ancora più poteri da Londra a Cardiff.

 

Per molti anni la battaglia per la secessione del Galles è stata una questione identitaria quasi esclusivamente una faccenda delle delle comunità rurali del nord, che volevano difendere la lingua e i costumi gallesi. Sei anni fa, prima della Brexit, del Covid e della grande performance ai campionati Europei del 2016, un altro fattore che secondo molti ha aumentato la fiducia dei gallesi in loro stessi, il sostegno per l’indipendenza era fermo al 3 per cento. Solo ultimamente l’indipendenza è diventata una questione politica, in grado di riempire le piazze e dare vita a un nuovo tema elettorale. Poco prima del Covid le tre marce organizzate da Yes Cymru, un’associazione apartitica ma filo indipendentista creata sul modello della campagna Yes Scotland che ha animato il referendum scozzese del 2014, hanno attratto grandi folle. Nell’ultimo anno i membri di Yes Cymru sono aumentati da due a diciotto mila, e tra di loro ci sono anche molti ragazzi che non sono motivati esclusivamente dall’attaccamento all’identità culturale gallese. Alcuni personaggi famosi, come il rugbista Ashton Hewitt o l’ex ceo di Just Eat David Buttress, si sono schierati a favore della campagna per lasciare il Regno Unito. “Molti giovani indipendentisti hanno una visione cosmopolita e progressista e vedono il governo Johnson a Londra come l’espressione di un gretto nazionalismo inglese”, spiega Adam Sandry, politologo all’università di Swansea e grande conoscitore della galassia autonomista. “Inoltre, dopo la pandemia molti gallesi vedono la rottura con il Regno Unito come un’alternativa allo status quo”.

 

Eppure, a differenza della Scozia, la popolarità dell’indipendentismo gallese non è solamente un contraccolpo della Brexit. Innanzitutto, il 52 per cento dei gallesi ha votato per uscire dall’Ue e, con l’eccezione di Cardiff e alcune aree dell’est, quasi tutti i seggi hanno sostenuto il leave. Secondo l’accademico e attivista gallese Sion Jacbos, che presiede e ha cofondato Yes Cymru nel 2014, la Brexit ha avuto soltanto un “effetto indiretto” sul movimento indipendentista. “L’uscita dall’Ue ha aperto un vaso di Pandora – ci spiega Jacobs – e ha portato molte persone a porsi delle domande identitarie, del tipo: cosa significa essere britannici o gallesi? Inoltre la gestione confusionaria del processo di uscita dall’Ue non è stato un bello spot per Westminster, e questo ha aumentato le spinte indipendentiste in Galles”. Plaid Cymru punta a fare rientrare il Galles nel mercato unico europeo nel breve termine e nell’Ue nel lungo termine, anche se la questione europea non è tra le parole d’ordine dei paladini dell’indipendenza.

 

L’impatto politico della pandemia è stato, questo sì, un fattore più decisivo. I cittadini gallesi hanno generalmente apprezzato la gestione prudente dell’emergenza sanitaria da parte del premier laburista Mark Drakeford a Cardiff, che ha fatto da contraltare agli istinti libertari del primo ministro Boris Johnson e che, secondo molti, è stato ostacolato da Londra. Molti indipendentisti recriminano che a fine ottobre, in piena seconda ondata, Drakeford voleva indire un nuovo lockdown in Galles ma Downing Street ha rifiutato di stanziare dei fondi, e di fatto gli ha legato le mani. Più tardi, quando Londra ha capito che la situazione sanitaria non accennava a migliorare, ha fatto marcia indietro e ha dato il via libera a malincuore. “Anche Johnson ha capito che non basta sventolare l’Union Jack per fermare la pandemia. Questo ha alimentato la sensazione che il Galles non sia padrone del suo destino, e che Westminster non abbia fatto nulla per aiutarci nel momento del bisogno”, dice Jacobs.

 

Inoltre, come spiegano molti osservatori, la pandemia ha fatto scoprire ai cittadini gallesi “dei poteri autonomi di cui non erano a conoscenza”. La devolution è avvenuta oltre vent’anni fa, trasferendo all’assemblea di Cardiff le competenze sulla sanità, i trasporti e molti altri temi. Tuttavia, solo grazie alla pandemia, i gallesi hanno notato l’impatto di questa autonomia nella loro vita quotidiana, aumentando la popolarità dell’esecutivo di Cardiff e l’importanza delle elezioni locali. Il deputato del Senedd Hefin David, che rappresenta il Labour nella cittadina post industriale di Caerphilly, attualmente in bilico tra i laburisti e Plaid Cymru, ha notato questo cambio di paradigma nella campagna elettorale porta a porta. “Quando vado in giro con Mark Drakeford, la gran parte degli elettori lo riconosce, lo accoglie calorosamente e gli chiede un selfie – ci spiega David – Questo avveniva molto più raramente con i suoi predecessori”. Secondo il deputato, questa è la prima campagna elettorale in cui l’indice di popolarità della leadership laburista “avrà un impatto minimo” sull’esito del voto in Galles che, secondo lui, sarà dettato da “questioni locali”.

 

A meno di clamorose sorprese, all’indomani del voto il premier Drakeford cercherà l’appoggio del partito autonomista e di centrosinistra Plaid Cymru, che potrebbe chiedere il referendum sull’indipendenza come condizione del suo ingresso in maggioranza. “Credo che andrà così”, dice Sandry, secondo cui Plaid Cymru oggi è un partito “meno timido” rispetto al 2007, quando è entrato al governo con i laburisti per la prima e ultima volta. In questo caso, spiega Sandry, per il Labour “sarà molto difficile dire di no al referendum, considerando che molti elettori di sinistra sono a favore dell’indipendenza”.

 

Tuttavia, il grande rischio per il fronte autonomista è che il sostegno per l’indipendenza non si traduca in un mandato politico. La più grande differenza tra la Scozia e il Galles è che a Edimburgo la battaglia per l’indipendenza è la bandiera identitaria del partito di governo, che esercita un enorme pressione su Londra. Invece in Galles i due maggiori partiti (Labour e Tory) sono unionisti, anche se con sfumature diverse. Se i Tory sono il partito unionista e filo britannico per eccellenza, il Labour è sì contro l’indipendenza ma a favore di una maggiore redistribuzione di poteri da Londra a Cardiff. Dopo il 6 maggio, il machiavellico Mark Drakeford resterà il kingmaker della politica gallese e di conseguenza potrà porre il veto su una consultazione popolare. I laburisti gallesi che, come i loro cugini scozzesi, vogliono parlare di indipendenza il meno possibile, e assicurano che questa “non è una priorità degli elettori”, sono arci contrari a un referendum. “Se vuoi rendere rilevante un tema anonimo, fai un referendum – dice David – A oggi nessuno parla della pena di morte ma, se tenessimo un referendum sul tema, la gente non parlerebbe d’altro. Lo stesso vale per l’indipendenza gallese”. Di fronte a questo muro, agli indipendentisti non resta altro che aspettare e sperare che nel frattempo arrivi una buona notizia dalla Scozia e dall’Irlanda del nord, dove la Brexit ha polarizzato il dibattito politico e reso più probabile la riunificazione tra le due Irlande.

 

Eppure l’appeal crescente del nazionalismo gallese impensierirà il premier Johnson. L’attenzione ossessiva verso la Scozia ha fatto passare in secondo piano la situazione nelle altre regioni autonome. All’indomani di questa tornata elettorale, il governo di Londra potrebbe ritrovarsi con un partito anti britannico e secessionista al governo in ognuna delle province del Regno (Snp in Scozia, Sinn Féin in Irlanda del nord e Plaid Cymru in Galles). Archiviata la Brexit e in parte la pandemia, questa è la nuova crisi per Downing Street.

 

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