stampa e regime

Perché in Russia si parla del '37

La pressione sta diventando sempre più forte e se fino a qualche anno fa l'attività era dura soprattutto per i giornalisti locali adesso il senso di insicurezza si è esteso, fino ad arrivare all'assurdo

Micol Flammini

L’Fsb ha iniziato a occuparsi dei giornalisti con tattiche volte a intimidirli: li segue, si apposta davanti casa, perquisisce redazioni e abitazioni. Gli arresti pretestuosi sono in aumento e ormai cercare i nomi di chi è stato fermato il giorno prima è diventato un rituale 

Due settimane fa il sito di notizie Meduza è stato dichiarato “agente straniero”, un’etichetta che comporta una serie di restrizioni e che punta a impoverire la stampa in modo da renderle  sempre più difficile lavorare, scrivere, pubblicare. Meduza è una testata molto battagliera, ha una posizione chiara contro il presidente Putin e in  questi mesi ha sostenuto le proteste per la scarcerazione di Alexei Navalny. Adesso teme che non potrà più contare sulle inserzioni e sui finanziamenti, ma non è la prima volta che deve affrontare dei problemi con il Cremlino. Si era preparata alla possibile repressione e per questo dal 2014 la sua redazione è in Lituania. L’ha voluta lì Galina Timchenko, ex direttrice abituata ad avere problemi con il potere russo. Meduza pubblica in russo e in inglese e anche questo ha contribuito ad aumentare la sua risonanza. Ma non è un caso isolato, sono anni che il Cremlino sta inasprendo  la pressione sui media. Lo scorso anno, Andrei Soldatov, giornalista russo d’inchiesta esperto di spionaggio, raccontava come l’Fsb si stesse interessando sempre di più all’attività dei giornalisti, usando gli stessi metodi paranoici usati in passato con gli oppositori, “e sta facendo di tutto per assicurarsi che i giornalisti lo sappiano”. Li segue, si apposta davanti casa, perquisisce abitazioni e redazioni. 

 

La pressione sta diventando sempre più forte e se fino a qualche anno fa l’attività  era dura soprattutto per i giornalisti locali – c’era la tendenza a credere che le inchieste locali potessero minare il potere più di quelle nazionali – adesso il senso di insicurezza si è esteso, fino ad arrivare all’assurdo: quando la polizia poche settimane fa ha arrestato quattro redattori di una rivista studentesca chiamata Doxa con l’accusa di aver istigato i giovani alle proteste. I quattro ragazzi sono stati rilasciati, sono in libertà vigilata, ma l’episodio ha dato la misura di quanto la forza della censura sia pronta a colpire tutto, anche una pubblicazione di ragazzi e per ragazzi. Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, per giustificare l’arresto, ha detto che Doxa “aveva iniziato come una pubblicazione di studenti, ma parla di argomenti politici, non c’è molto sulle questioni studentesche”. Oltre a evidenziare la paranoia, l’ansia, la chiusura della Russia di Putin, l’arresto ha dimostrato quanto  i giovani  preoccupino sempre di più il presidente. 

 

Gli arresti sono diventati più frequenti e sempre più pretestuosi. Lo scorso anno, Ivan Safronov, ex corrispondente del Kommersant e di Vedomosti, da poco trasferitosi alla Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, è stato arrestato con l’accusa di tradimento. Secondo l’intelligence, Safronov spiava per conto della Repubblica ceca. Negli anni si era occupato di Difesa, dei rapporti di Mosca con la Siria e con l’Iran, di temi militari sensibili. Ma secondo diversi analisti è improbabile che Safronov avesse delle informazioni da mandare a Praga, e che l’arresto fosse più un’azione dimostrativa dell’Fsb. La comunità giornalistica si è molto movimentata per il collega come aveva fatto per Ivan Golunov, corrispondente a Mosca di Meduza, accusato di spaccio. Golunov era stato poi rilasciato e c’è un processo contro l’agente che ha guidato l'indagine contro di lui. Nell’arresto del giornalista di Meduza non credeva neppure il Cremlino, ma anche  in quel caso la comunità mediatica dimostrò una forza e una solidarietà tali da far capire a Putin che esiste un’opinione pubblica che osserva, e che per resistere è pronta a unirsi.

 

La sensazione di instabilità colpisce i russi come gli stranieri. Durante le ultime manifestazioni in Russia per  la scarcerazione di Alexei Navalny, anche i reporter regolarmente accreditati   sono stati arrestati, indipendentemente dalla loro nazionalità. Catherine Belton, ex corrispondente del Financial Times a Mosca e ora a Reuters, ha pubblicato lo scorso anno un libro molto denso dal titolo “Gli uomini di Putin”, che è il racconto di come sotto una patina di novità fatta più di aspettative che di elementi concreti, Putin abbia rimesso in piedi il regime sovietico, riciclando metodi e personaggi. La Belton è stata citata per diffamazione da un gruppo di oligarchi, tra cui Roman Abramovich. 

 

Vladimir Putin non è è mai stato un difensore della libertà di stampa e non ha mai neppure fatto finta di esserlo. E’ stato soltanto capito tardi,  ma adesso c’è un’accelerazione dovuta a un suo senso di insicurezza e anche alla volontà di nascondere sempre di più quello che accade in Russia: la lenta erosione del consenso, le proteste e la repressione. Metodi vecchi applicati a tempi nuovi. Il commentatore del Moscow Times, Ilya Klishin, scrive che in Russia c’è la tendenza a usare l’espressione “è  un nuovo ’37”, facendo riferimento all’anno delle purghe staliniane. Spesso l’espressione è stata usata a sproposito, e si fa sempre difficoltà a  tirare in ballo quell’anno terribile, ma, scrive Klishin, ormai è un rituale mattutino: svegliarsi e cercare di sapere chi è  stato arrestato il giorno prima tra i giornalisti nella Russia di oggi.  Le autorità “vengono sempre per qualcuno e se un giorno nessun nuovo nome dovesse comparire in questo appello implacabile di repressione, potrebbe significare solo una cosa: che hanno arrestato chiunque potesse portare le notizie”. Il cerchio sembra stringersi, potrebbe toccare a chiunque: “Forse non è un nuovo ’37, ma qualunque cosa sia, è diabolicamente inquietante”. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.