Foto: Paul-Alain Hunt

Vi racconto la vita di mio cugino Bob Gersony, volto buono della diplomazia Usa

Marina Gersony

Ha condotto ricerche dal Mozambico all'Iraq, salvando vite e rischiando la propria. Hanno scritto un bestseller su di lui. Ma qui sarà sempre Bob, figlio di sopravvissuti alla Shoah e cugino di mio padre

Premetto che Bob Gersony è mio cugino, il famoso cugino d’America che vedi soltanto durante le feste comandate ma che in famiglia è considerato una sorta di mito. Di lui sapevo che era un consulente del Dipartimento di stato degli Stati Uniti impegnato in missioni segrete e che aveva scritto un rapporto importante per la Casa Bianca influenzando la politica estera americana (Gersony Report). Su Wikipedia era scritto quanto bastava per vantarmi di tanto in tanto con gli amici. In breve, per noi Gersony italiani il cugino Bob era un tipo interessante e misterioso. Siamo legati da reciproco affetto, accomunati dalle antiche erranze e il ricordo dei nostri padri, nonni e bisnonni; storie e intrecci di famiglie ebraiche che hanno vissuto gli anni bui della persecuzione. Bob mi aveva accennato che stavano scrivendo un libro sulla sua vita, ma non ci avevo dato peso. Chi non scrive un libro, oggigiorno, se lo fa scrivere, pensai, me ne manderà una copia sapendo il lavoro che faccio. Non ho saputo più niente finché non mi è arrivata una mail con il link a un articolo del Washington Post che annunciava l’uscita di The Good American. The Epic Life of Bob Gersony, the US Government’s Greatest Humanitarian di Robert D. Kaplan, noto autore di bestseller tradotti in molte lingue (Random House). “Un libro brillante e accurato nelle ricerche di un autore come Kaplan – come annota Bernard Henry-Lévy nel risvolto di copertina – che non poteva arrivare in un momento più importante per gli Stati Uniti. Il suo lavoro intelligente ci ricorda che la compassione per gli altri non deve avere confini”.

 

Chi è il cugino Bob descritto da Kaplan come un personaggio emotivamente tormentato che sembra essere uscito da un romanzo di Saul Bellow? Robert Paul Gersony (Bob) è nato nel 1945 a Manhattan, figlio di ebrei ortodossi moderni di origini lettoni e viennesi sopravvissuti alla Shoah. Il padre di Bob, di nome Grisha – cugino di primo grado di mio padre Guido – era di Libau (Lettonia), dove vivevano i Gersony commercianti in granaglie. Dopo avere girovagato per il mondo mentre Hitler saliva al potere, Grisha arrivò a New York con 50 dollari in tasca e fece fortuna: una storia nella storia che merita un altro racconto. In breve, il giovane Bob, refrattario agli studi presto abbandonati, si arruolò nell’esercito e prese servizio dal 1966 al 1969 in Vietnam da dove ritornò con una stella di bronzo e amareggiato per l’inefficienza di una certa politica estera americana. Da quel momento iniziò a viaggiare per tutti i continenti dilaniati da guerre e calamità naturali per scoprire la verità sul campo. Operava nei no man’s land più ostici e pericolosi redigendo rapporti che avrebbero influenzato le decisioni della politica estera americana salvando innumerevoli vite. Viaggiava da solo o con un traduttore, raramente in squadra, dormendo per terra o in sacchi a pelo. Riportava informazioni di prima mano che non avevano niente a che vedere con i rapporti asettici delle ambasciate, Usaid, Cia o dallo staff del Consiglio di sicurezza nazionale distanti anni luce dalla realtà dei fatti. I suoi rapporti erano verità spesso scomode per Washington e oggetto di controversie impossibili da confutare; resoconti che avrebbero indotto burocrati e politici negazionisti, agenzie umanitarie e organizzazioni non governative a intervenire. Nel corso della sua carriera, Gersony ha intervistato più di 8.200 persone che, grazie alle doti narrative di Kaplan, diventano racconti più che mai vividi e avvincenti.

 

Un racconto fra tutti è la missione in Mozambico, dove Gersony scoprì che l’insurrezione Renamo (Resistência Nacional Moçambicana) – in procinto di ottenere massicci aiuti militari sotto la dottrina Reagan – non aveva nessun programma di governo ed era responsabile di uccisioni, stupri e mutilazioni su larga scala. Al ritorno dal Mozambico nel marzo 1988, Gersony informò il segretario di stato George Shultz e Maureen Reagan, figlia del presidente. In seguito, come racconta Kaplan, Shultz fece in modo di fare pervenire a Reagan un promemoria del rapporto di Gersony che fu fondamentale per la decisione americana di rifiutare immediatamente gli aiuti a Renamo e porre le basi per la fine della guerra civile.

 

Risale al 1984 la scoperta di Gersony che a capo di una squadra documentò sul campo l’uccisione di oltre 100.000 civili, soprattutto donne e bambini in Uganda. Anche in quest’occasione, fu uno dei rari stranieri che aveva avuto l’audacia di avventurarsi in un’area devastata dalla guerra civile conosciuta come il Triangolo Luwero. Nonostante i pericoli, riuscì a informare il Dipartimento di stato e la comunità dei diritti umani a Washington e Ginevra per denunciare ufficialmente quanto stava accadendo. Ma nessuna azione fu intrapresa per porre fine al massacro e il suo rapporto fu oggetto di contestazioni. Fu allora che decise di rivelare le sue informazioni al Washington Post, riprese in seguito anche dai media internazionali. Anche in questo caso le uccisioni in Uganda diminuirono.

 

Solitario, ansioso, e con un coraggio in stile Homeland della serie Netflix, Bob ha condotto ricerche in Thailandia, centro e Sudamerica, Sudan, Ciad, Gaza, Bosnia, Corea del nord, Iraq e altrove salvando vite e rischiando la propria; le sue ricerche nell’arco di quarant’anni hanno sfidato i poteri di ogni schieramento politico. La sua storia arriva in un momento in cui l’America cerca di riabilitare la propria immagine di “brutto americano”, quell’Ugly American preso in prestito da un vecchio romanzo della Guerra fredda che descriveva il corpo diplomatico americano come una squadra di chiassosi e arroganti pasticcioni i cui fallimenti contribuirono all’ascesa del comunismo nel sud-est asiatico. E se ogni stagione politica ha i suoi mostri, le sue veneri e i suoi apolli, oggi l’America post trumpiana pare volere riaffermare quel modello del Good American in passato fonte di ispirazione. Come Bob Gersony, il volto buono degli Stati Uniti, una figura sconosciuta che ha reso le decisioni della foreign politics più avvedute e umane.
 

Di più su questi argomenti: