Nel silenzio di Auschwitz

Francesco M. Cataluccio

Ora che i testimoni diretti dell’orrore se ne stanno andando, diventa centrale la postmemoria. Libri

La prima volta che andai ad Auschwitz fu nell’aprile del 1980, durante una tardiva tormenta di neve. Da allora mi è rimasto dentro il silenzio. Un silenzio mai sperimentato prima, che nemmeno il gracchiare dei panciuti corvi riusciva a intaccare. Ero da solo e quindi, vendendomi il biglietto d’ingresso, mi obbligarono ad accodarmi a un gruppo di visitatori polacchi, che mi dettero un passaggio sul loro sgangherato autobus fino a Birkenau. Sul piazzale, davanti all’edificio dove arrivavano i treni merci con dentro i deportati, ci attendeva un vecchietto imbacuccato in un impermeabile decisamente troppo leggero. Si presentò dicendo che era un ex prigioniero: lì aveva trascorso due anni. Seguimmo la nostra guida senza dire una parola. Lui sussurrava le sue spiegazioni come in un soliloquio. Non sapevo ancora bene il polacco da comprendere tutti i termini tecnici che usava e, anche a causa della tormenta, percepivo solo frasi spezzettate. Mi sforzai tutto il tempo di capire qualcosa guardando la sua incurvita gestualità: dimenava tutto il corpo, strabuzzava gli occhi, stringeva le mascelle, si interrompeva guadando come nel vuoto. A un certo punto strinse con la mano il filo spinato e si lasciò andare come mimando il gesto di alcuni suoi ex compagni che, non potendone più, scelsero di accorciare le proprie sofferenze rimanendo fulminati.

    

La visita, fino al limite del campo con il bosco di betulle, durò più di due ore, l’ultima parte senza una parola, prima di tornare al complesso di partenza dove ci sono le baracche con le scarpe, le valige, le foto e il cancello sormontato dalla macabra scritta beffarda. Nell’aprile del 2008 invece udii, in quel museo dell’Inferno, parlare in toscano a un gruppo di studenti. Era Nedo Fiano che raccontava quel luogo dove era stato deportato e fu annientata tutta la sua famiglia paterna. I ragazzi ascoltavano, qualcuno piangeva. Nedo Fiano, Liliana Segre, Sami Modiano, Piero Terracina, Luciana Nissim, Shlomo Venezia e altri sopravvissuti ebbero bisogno di diversi anni prima di trovare la forza di raccontare.

 

Piero Terracina (1928-2019), nell’intervista rilasciata a Lisa Ginzburg nell’aprile del 2000 (pubblicata ora in: P. Terracina, Pensate sempre che siete uomini. Una testimonianza della Shoah, Ponte alle Grazie), ricordava perfettamente tutto, sin dall’inizio: quando, in quinta elementare, la maestra una mattina fece l’appello omettendo il suo nome e poi gli disse che doveva andarsene perché era ebreo; quando, ormai in carcere, il padre chiese perdono ai propri figli e poi disse loro: “Ragazzi, possono succedere le cose più terribili. Mi raccomando una cosa sola: pensate sempre che siete uomini”. Terracina spiega: “Sono stato tantissimi anni senza raccontare a nessuno quello che è accaduto. Neppure con gli amici e le persone più care ho parlato mai. Probabilmente pensavo in questo modo di esorcizzare il mio passato. Invece il mio passato rimaneva sempre dentro di me (…). C’è stato un momento preciso in cui mi sono detto che non era più possibile tacere, che era arrivato il momento in cui la gente doveva sapere quello che era stato”. Quel momento fu un insieme di fatti che lo convinse che il “morbo di Auschwitz” si stava riaffacciando: la confusione tra ebrei e israeliani durante la guerra arabo israeliana; il corteo sindacale che, nel 1982, pose una bara bianca davanti alla Sinagoga di Roma; la profanazione, nel 1990, delle tombe ebraiche nel cimitero di Carpentras… I sopravvissuti, per molti anni, sembravano condannati al silenzio. Anzitutto era difficile e doloroso, per loro, raccontare. Piero Terracina ricorda che, diciassettenne, tornato a Roma, unico sopravvissuto delle sua famiglia, con i nuovi amici non voleva raccontare di Auschwitz, ma loro, del resto, non gli chiesero mai niente: “Io non volevo parlare, loro anche probabilmente non volevano ascoltare”.

 

Molti anni dopo, capì che bisognava iniziare a raccontare di Auschwitz e andare nelle scuole a parlare con i ragazzi perché, nel 1987, era morto Primo Levi: “Il testimone per eccellenza”. Eppure anche Levi, appena tornato nel 1945 dal campo di sterminio dopo un anno di deportazione, non riusciva “a trasformare i fatti in ricordi”. Prima di poter raccontare il proprio passato, dovette riuscire a prendere distanza da quegli eventi drastici che segnarono la sua vita. Levi fu tra i primi a rompere questo silenzio con i suoi libri, a cominciare da Se questo è un uomo (1947), del quale Alberto Cavaglion ha appena pubblicato un’utile introduzione (A. Cavaglion, Primo Levi: guida a Se questo è un uomo, Carocci editore). Scrivere quel libro fu per Levi una sorta di terapia: “Quando tornai a casa non mi sentivo assolutamente in pace. Mi sentivo invece profondamente turbato. Un certo istinto mi spinse a raccontare la mia vicenda. La raccontai verbalmente a chiunque, anche a persone sconosciute. Poi qualcuno mi consigliò, dicendomi che avrei anche potuto scriverla. Così ci provai, e attraverso l’atto della scrittura provai un senso di progressiva guarigione” (Conversazione con Anthony Rudolf, in: Primo Levi, “Riga”, n. 13, 1997).

  

La tormentata vicenda della pubblicazione del libro è nota: il dattiloscritto, consegnato nel 1947 all’Einaudi, ricevette un giudizio negativo, dopo le letture di Cesare Pavese e Natalia Ginzburg; verrà pubblicato, lo stesso anno, dalla piccola casa editrice torinese De Silva di Franco Antonicelli e poi, nel 1958, sarà ripubblicato da Einaudi (grazie al parere favorevole di Luciano Foà e Italo Calvino). Oltre alla difficoltà di raccontare, c’è stata anche quella degli altri ad ascoltare storie terribili e inimmaginabili.

  

Persino i figli di Levi provavano disagio a starlo a sentire: “I miei figli, che sono ormai adulti, soltanto adesso tollerano che si parli delle cose che scrivo, ma sempre con un certo disagio. (...) A mia insaputa, o per lo meno senza che io lo volessi, questa casa era satura di lager quando i miei figli erano piccoli e quindi hanno respirato il lager attraverso i libri, le fotografie e le riviste, attraverso i discorsi da me fatti con amici in loro presenza quando pensavo che un bambino di tre anni non potesse capire. Perciò hanno sviluppato una specie di anafilassi nei confronti di certe cose. (...) Quando avevano quindici anni avrei desiderato raccontare loro, anche a loro, le mie cose. Tutti e due hanno avuto una reazione violenta, sono arrossiti si sono messi a piangere e sono scappati. Ho capito che qualcosa mi separava da loro” (M. Dini e P. M. Fasanotti, “Io e la mia famiglia”, Panorama, 26 aprile 1987).

 

Giustamente Rosellina Balbi, in un’intervista a Levi (R. Balbi, “Mendel, il consolatore”, la Repubblica, 14/04/1982), ricordò l’analoga situazione nella quale si viene a trovare il protagonista di “Napoli milionaria” (1945) di Eduardo De Filippo: l’uomo che torna a casa dopo il tempo dell’orrore, e quell’orrore vuole raccontarlo, vuole dividerlo con qualcuno per liberarsene; e invece tutti gli dicono “ma lascia stare, è tutto passato, adesso mangia, bevi e non pensarci più”. E parlano d’altro.

 

Ci fu un altro ex deportato ad Auschwitz che, appena ritornato a casa, nei pochi mesi prima di morire, scrisse per primo una sconvolgente testimonianza, dove raccontava anche di essere sopravvissuto alla camera a gas per un “guasto tecnico”. L’avvocato e giornalista triestino Bruno Piazza (1889-1946), figlio di una famiglia ebraica irredentista, intitolò amaramente il suo libro Perché gli altri dimenticano (pubblicato da Feltrinelli nel 1956, poi nel 1995, e riedito da Castelvecchi nel 2018). Purtroppo di lui si è parlato sempre poco e la sua testimonianza non viene mai citata.

  

Col passare degli anni, i testimoni diretti dell’orrore di Auschwitz vanno purtroppo scomparendo. Sempre più attuale diventa quindi la questione della “postmemoria”. La studiosa di letterature comparate Marianne Hirsch, nel libro The Generation of Postmemory (Columbia University Press, 2012), ha preso le mosse dall’analisi della celebre e autobiografica graphic novel Mouse (1986-1991) di Art Spiegelman, figlio di Vladek e Anja, due ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz: un tormentato, ma anche ironico, topolino-figlio costringe lo scorbutico e riluttante padre-topo a raccontare, tra silenzi e reticenze, cosa vide e gli fecero i gatti (nazisti) nel campo di sterminio. Hirsch sostiene che anzitutto i figli dovranno da ora in poi tenere vivo il racconto di ciò che successe ai loro padri, mettendo assieme le varie testimonianze e cercando, ostinatamente, di riempire i “buchi” che ancora ci sono. Così facendo salveranno la memoria ed eviteranno il rischio che torni il silenzio.

 

Il figlio di Nedo Fiano, Emanuele, ha appena pubblicato un libro bello e intenso (E. Fiano, Il Profumo di mio padre. L’eredità di un figlio della Shoah, Piemme 2021) dove esprime tutta la difficolta di essere figlio di un ex deportato: “Noi figli dei sopravvissuti alle camere a gas di Birkenau non siamo normali. Lo sa bene la mia amata moglie e lo sanno i miei amati figli, e forse tutte le mogli dei figli della Shoah e i loro figli. Come primi le nostre madri o padri. Noi non abbiamo ascoltato solo parole dolci e tenere dai nostri padri, non solo favole ci è capitato di ascoltare, ma il silenzio impastato di lacrime e urla, di fronte a una fetta di pane nero come il loro; di fronte a un bambino che chiede moneta, di fronte a improvvise parole tedesche, di fronte all’immagine del papà allora silente. Il padre che pensavamo invincibile e forte piangeva, taceva, scappava. Abbiamo visto un eroe tornare bambino. Non abbiamo sentito sempre parlare di nonne graziose o di nonni importanti, ma dei loro volti rigati di pianto o spezzati alla vita; noi abbiamo avuto paura del buio che forse un nazista spuntava”.

 

Nedo Fiano (1925-2020) fu arrestato a Firenze il 6 febbraio del 1944 e trasferito nel campo di concentramento di Fossoli (Carpi). Il 23 maggio, dopo una settimana di viaggio in un carro merci, arrivò nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Come Primo Levi si salvò perché sapeva il tedesco. Fu assegnato a un Sonderkommando che riceveva i convogli dei prigionieri e, nel magazzino chiamato Kanada, smistava i vestiti, le valigie e ogni avere strappato alle vittime (fu testimone dell’annientamento sistematico, durante l’estate, di 400 mila ebrei ungheresi: “Ho visto sparire quasi tutto l’ebraismo ungherese…”). Trasferito a Buchenwald, fu liberato, quasi moribondo, dagli americani: un soldato nero lo raccolse dalla branda. Profumava di sapone “Lifebuoy” (un odore che per Fiano significava la libertà e che divenne il suo profumo). Al ritorno a Firenze, ricorda Liliana Segre nella Prefazione, era solo e non trovò più nessuno: “Dopo l’inferno, il deserto. Con un coraggio da leone, che ho sempre ammirato e ammiro ancora oggi, si era rifatto letteralmente una vita, una famiglia, un’istruzione (laureandosi da studente lavoratore passati quarant’anni), una carriera e una posizione economica e sociale. Nedo, con le sue ferite inguaribili e comuni a tutti noi sopravvissuti, è stato nonostante tutto l’incarnazione stessa dell’ottimismo della volontà, del volercela fare a dispetto di ogni tragedia e avversità”.

 

Quando Emanuele Fiano scrive il libro, i suoi genitori sono assieme in un ospizio: hanno perso completamente la memoria. E’ da questo silenzio (rotto di tanto in tanto da parole in francese o tedesco, una canzoncina, un sospiro accompagnato da un sorriso) che deve ripartire, facendo soprattutto i conti con un padre – amato, ferito, amaramente ironico, difficile – che non voleva che i figli sapessero perché aveva buchi nelle gambe e un alluce mozzato: “Per me bambino la spiegazione che lui stesso mi aveva dato era che il suo numero sul braccio fosse un modo per ricordarsi il numero di telefono…”.

 

Auschwitz fu per Emanuele bambino una sorta di non-luogo della memoria e della famiglia. Un qualcosa che c’era e non c’era. Una parola sconosciuta e da onorare: “Sacra, terrificante, ignota”. Un padre che, come diceva il suo compagno e amico di prigionia, Piero Terracina, “non era mai uscito da Auschwitz”. Eppure questi testimoni, come Liliana Segre, sono esseri dolci nel raccontare l’indicibile. Durissimo il ricordo, incredibilmente dolce il messaggio. Nedo Fiano iniziò a raccontare, più nel dettaglio e in pubblico, la sua vicenda nel 1977. Disse che si era sempre portato dietro una valigia da Auschwitz e che allora cominciava ad aprirla. Raccogliendo il testimone dal padre Nedo, poco prima del suo decesso, Emanuele Fiano invita a far sì che sia di lezione il ricordo di ciò che è stato: “Ognuno coltivi memoria di ciò che uomini commisero, coscienti, convinti, gaudenti. Uomini, non bestie. Domani spariranno i testimoni e io racconterò a chi non può credere, che tutto ciò è successo. A noi spetta memoria. Sarà sempre il nostro Kaddish”.

  

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