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Un consigliere di Trump ci dice che il piano di Biden è buono

Matteo Muzio

Gribbin è un esperto di infrastrutture e vede i punti positivi dell’investimento annunciato dalla Casa Bianca

Dopo lo stimolo per la pandemia, l’Amministrazione di Joe Biden ha lanciato mercoledì un piano complessivo per il rilancio del lavoro. Un progetto che durerà anche per i prossimi otto anni e che tra le altre misure, che comprendono un’espansione dell’assistenza a lungo termine per gli anziani e investimenti su progetti per la riduzione della violenza nelle comunità locali, contiene un ripensamento complessivo della rete infrastrutturale statunitense. Su 2.200 miliardi di spesa complessiva, circa 621 miliardi sono destinati proprio a strade, ferrovie e vie d’acqua. Senza dimenticare anche gli obiettivi dell’accordo di Parigi sulla riduzione delle emissioni, all’interno del quale gli Stati Uniti sono rientrati a fine gennaio.

 

Nell’estrema polarizzazione della politica americana, le infrastrutture sono un tema meno divisivo di altri. Ma riuscire a far approvare un provvedimento legislativo che le riguarda rimane estremamente difficile. Capitò a Barack Obama, quando alcune opere come il corridoio ad alta velocità ferroviaria Milwaukee-Chicago fu rifiutato dall’allora governatore repubblicano del Wisconsin Scott Walker, con la scusa di non aggravare la precaria situazione del debito pubblico americano. Non ci riuscì nemmeno Donald Trump, come sa bene David J. Gribbin, avvocato, fondatore dello studio Madrus, che dal gennaio del 2017 all’aprile del 2018 ha ricoperto la carica di consulente speciale del presidente sulle infrastrutture e ora è fellow della Brookings Institution dove si occupa dello stesso tema. Ma oggi, spiega Gribbin al Foglio, ci sono molte ragioni per essere più ottimisti: “Di sicuro il Partito repubblicano obietterà sul costo di questi progetti, anche perché non sono stati coinvolti, ma bisogna subito cambiare l’argomento principale di discussione: non più il costo, ma perché queste infrastrutture si devono realizzare e con quali obiettivi”.

 

 

Questa discussione sul ruolo del governo federale quindi potrebbe sottrarre la discussione alla faziosità? Difficile dirlo. Ma di certo lo stesso Gribbin aveva scoperto che era difficile sottrarsi: le dichiarazioni razziste o semplicemente inappropriate di Donald Trump resero tutto difficile. E il piano trumpiano era molto più ridotto, riguardava soltanto 200 miliardi di spesa, di cui metà con finanziamenti federali diretti. Già, perché ci sono degli aspetti tecnici da rivedere, come spiega Gribbin: “Soltanto il 6 per cento delle vie di comunicazione è di proprietà federale, il resto è statale o locale. Anche per questo negli ultimi anni i singoli stati hanno finanziato molto i loro progetti, mentre a livello federale si è fatto poco. E’ mancata una visione d’insieme sin da quando negli anni Novanta il progetto federale delle autostrade lanciato nel 1956 durante la presidenza Eisenhower è arrivato a compimento”. Ci sono anche dei tabù da sfatare: nonostante la rete sia datata, “è per la maggior parte in ottime condizioni. Non è vero che cade a pezzi”. L’utilizzo della retorica sulla rete “fatiscente” è stata molto usata in passato sia da Bernie Sanders sia da Trump per enfatizzare l’urgenza di un rinnovo.

 

L’impatto ambientale

Ai tempi di Obama “le lungaggini hanno giocato un ruolo pesante nel fermare sul nascere alcuni tracciati. L’Amministrazione scoprì che non si poteva subito aprire i cantieri senza prima risolvere le questioni delle autorizzazioni. Bisogna velocizzare i processi, stavolta”. Su un settore in particolare gli Stati Uniti mostrano una pesante arretratezza ed è quello dell’alta velocità ferroviaria, che ha cambiato i tempi di spostamento in Europa e in Giappone. “C’è anche un tema di differente spazialità, inutile nasconderlo– spiega Gribbin – anche le grandi città sono diffuse su superfici immensamente più grandi e non ci sono distretti produttivi come altrove. Un fallimento clamoroso per esempio c’è stato in California”. Il tracciato originario, ideato nel 2008, avrebbe dovuto connettere in 2 ore e 40 Los Angeles a San Francisco. Poi all’inizio del 2019, dati i costi eccessivi, il progetto è stato in gran parte cancellato e rimodulato dal governatore democratico Gavin Newsom: “Lì abbiamo visto tutti i limiti di un progetto tradizionale: eccessiva interferenza politica, affidamento di settori alla cura di consulenti esterni strapagati e infine eccessive tempistiche di inizio dei lavori. Diverso è il caso del progetto texano che dovrebbe unire Houston a Dallas. Anche se questo percorso è quasi tutto finanziato con soldi privati, il governo federale può fare molto per facilitare la sua inaugurazione”.

 

Se i costi salgono

Un ultimo ostacolo sulla strada di Biden, a parte la probabile opposizione dei repubblicani che, come ricorda Gribbin, “in genere non amano l’interferenza federale negli affari interni di stati che governano”, sono i costi, che rischiano di lievitare di anno in anno, come accaduto con la Tav californiana. “Questo problema va affrontato con grande attenzione: cosa fa salire questi costi? Bisogna indagare e risolvere. Solo così questi progetti ambiziosi potranno vedere la luce nei tempi previsti”, conclude Gribbin. Non c’è solo il pallottoliere quindi, sulla strada di Biden. In quest’epoca in cui torna di moda il big government, l’esempio californiano, dove questo modello è già una realtà da più di un decennio, deve mettere in guardia su come e quando lo stato diventa così grosso e invasivo da essere un ostacolo per se stesso.