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Il superpiano di Biden attacca il totem delle infrastrutture e il tabù delle tasse

Stefano Cingolani

Il presidente americano punta a rivedere il paradigma della spesa pubblica. Le divisioni al Senato e i mercati

Prima i 1.900 miliardi di dollari dell’American Rescue Plan per sostenere la domanda in puro keynesismo vecchia maniera. Adesso arriva un mega intervento dal lato dell’offerta con duemila miliardi di dollari in dieci anni per le infrastrutture. Gli Stati Uniti schierano un armamentario economico superiore a quello europeo e sfidano la Cina in quantità non solo in qualità della spesa pubblica. E’ una dimostrazione di forza, una risposta alla domanda di Foreign Affairs: l’America può ancora fare da guida?

 

La legge di bilancio per il 2021 aveva già messo a disposizione 1.400 miliardi di dollari ai quali si sono aggiunti 900 miliardi per gli assegni di disoccupazione. Adesso arrivano i 4 mila miliardi del piano Biden. Il pacchetto globale dell’Ue ammonta finora a 2.364 miliardi di euro compresi i 750 miliardi del Next Generation Eu. Certo, a Bruxelles non c’è un governo federale e il suo bilancio è esiguo, bisogna aggiungere dunque le misure dei singoli stati. Un calcolo fatto dagli economisti del Bruegel al 20 novembre scorso mostra che gli Stati Uniti, nel 2020, hanno speso il 9,1 per cento del pil in stimoli fiscali immediati, seguiti dalla Germania con l’8,3 per cento, tutti gli altri paesi  restano molto indietro (l’Italia al 3,4 per cento), hanno preferito allargare le garanzie per la liquidità e i rinvii dei pagamenti. Le decisioni per fronteggiare la terza fase della pandemia non colmano la forbice.

 

“Spendere è facile, investire è duro”, il Wall Street Journal mette le mani avanti, ma non va oltre la cautela. L’agenda economica di Biden ha due fasi, e la fase due è più importante della prima, scrive Greg Ip. L’obiettivo è giusto, se funziona non solo invertirà decenni di incuria e di tagli, ma avrà un effetto moltiplicatore rilevante: ogni dollaro speso in strade, ponti, ferrovie genera almeno due dollari e mezzo. Il cambiamento è frutto della necessità, però è anche figlio di un diverso approccio intellettuale: torna in primo piano la convinzione che sia il governo a guidare la crescita. C’è chi tira in ballo l’eterno New Deal  chi la Great Society senza dimenticare la spinta data da Ronald Reagan o anche il salvataggio delle banche dopo il crac del 2008.

  

Ma Biden ora attacca sia il totem delle infrastrutture sia il tabù delle tasse. Altro che sleepy, Joe non dorme. Sul fisco sembra davvero invertire la marcia rispetto a quella rivoluzione reaganiana che nemmeno Bill Clinton e Barack Obama avevano sfidato fino in fondo. Proporre un aumento delle imposte sulle imprese pari a 695 miliardi di dollari (passano dal 21 al 28 per cento del reddito) è una scelta destinata a pesare e a dividere, persino tra i democratici pur sensibili al grande tema delle diseguaglianze aggravate dalla pandemia (gli economisti parlano di una economia a forma di K). Mentre ai radicali guidati da Alexandria Ocasio-Cortez i duemila miliardi non bastano, c’è da attendersi battaglia aperta in un Senato diviso esattamente in due. 

 

L’altra incognita viene dai mercati. L’intervento pubblico aumenta il deficit e l’appetito federale si aggiunge all’alluvione di dollari caduti dalla Federal Reserve (il bilancio è raddoppiato arrivando a 7 mila miliardi, un terzo del pil). Le cassandre si fanno sentire soprattutto tra i monetaristi, ma scende in campo persino il liberal Larry Summers preoccupato dall’eccesso di spesa anche se i prezzi restano contenuti e non c’è finora nessuna spinta dal lato dei costi schiacciati dalla concorrenza asiatica e dall’innovazione tecnologica. L’inflazione ha da poco superato il tetto del 2 per cento che la Fed si è data e già si sente la lagna di chi vuole una stretta preventiva. Un rialzo dei tassi sarebbe un pericolo molto serio, persino peggiore del rischio di non spendere bene e in fretta.

 

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