A Qaraqosh, vicino Mosul, una croce pende dal tetto della chiesa di Santa Maria al Tahira, bruciata e distrutta dallo Stato Islamico (Chris McGrath / Getty Images) 

La fratellanza contro i fanatici

"Arriveremo a Roma”, dicevano gli estremisti. Ma è Papa Francesco ad arrivare a Mosul, dove tutto brilla

Daniele Raineri


“L’arrivo di Bergoglio è una gioia che ci fa quasi dimenticare tutto”, ci dice il monaco Husam, in felpa e scarpe da ginnastica a Qaraqosh, dove i cristiani in soli quattro anni hanno ricostruito la vita spazzata via dallo Stato islamico

Mosul, dal nostro inviato. “No, niente foto, che poi ci prendono in giro in Italia!”. Le suore lavano la strada con getti d’acqua, sono allegre, si allarmano quando vedono la macchina fotografica alzata, non vogliono essere viste con gli stivali e le ramazze in mano. Hanno passato sette anni a Bologna e non hanno mai visto il Papa – “avevamo da studiare” – ma è lui ad arrivare qui domenica nella piana di Mosul, nella piccola città di Qaraqosh, ed è la ragione che spiega perché lavano la strada. Tutto brilla sotto il sole, tutto è lucido, le bandierine del Vaticano bianche e gialle sfarfallano appese ai lampioni, gli uomini dell’antiterrorismo con le tute nere e le armi americane sono appoggiati ai muri. Ecco, le suore hanno un unico motivo di malcontento ed è che non vedranno il Papa in carne e ossa da vicino nemmeno questa volta, “non c’è posto in chiesa per noi, i posti sono occupati dalle autorità, ci andrà soltanto la Madre superiora, guarderemo da fuori”.

  

Essere ammessi dentro o almeno nel chiostro della chiesa di Santa Maria al Tahira domenica durante la visita di Francesco è uno status symbol, tutto l’Iraq che conta e che non ha trovato posto nelle altre tappe del viaggio sarà qui. Generali e politici. È il giorno speciale. È lo spirito dei grandi eventi internazionali che soffia di nuovo sulla piana di Mosul, dopo che per anni era stata dimenticata. È la celebrazione di quel che resta della presenza cristiana in Iraq. È una festa di superstiti. Soprattutto, è il giorno che chiude la storia cominciata il 7 agosto 2014, quando tutti i cristiani lasciarono le loro case in poche ore tra il primo pomeriggio e la notte perché lo Stato islamico aveva sfondato le linee di difesa dei curdi e stava piombando loro addosso.

 
Due settimane prima c’era stato un falso allarme, la gente aveva abbandonato in massa la zona per tre giorni ma poi era tornata, la notizia dell’avanzata dei fanatici si era rivelata infondata. Per questo motivo la seconda volta la reazione era stata più lenta. I cristiani forse pensavano, con quella capacità di produrre finte razionalizzazioni che è la speranza in Iraq: anche questo si rivelerà un falso allarme. Forse stiamo fuggendo per nulla. Forse andiamo via ma torneremo di nuovo fra pochi giorni. Invece era una disfatta definitiva. I soldati iracheni si erano dileguati molto tempo prima, quelli curdi da soli non bastavano e collassarono sotto l’onda d’urto. Lo Stato islamico aveva una potenza militare superiore, conquistava città dopo città, come un mostro in un film di fantascienza ingoiava interi pezzi del nord del paese senza esitare e senza dare cenni di rallentamento. E l’occidente non si muoveva – i primi aerei americani cominceranno i loro raid soltanto alla fine di agosto. Se persino alcuni cristiani sul posto, quindi appartenenti alla minoranza più esposta dopo quella yazida alla violenza dei fanatici, stentavano a realizzare quello che stava succedendo, figurarsi la lentezza a inquadrare la situazione che c’era nelle capitali europee e in America. 

  

A inizio giugno il gruppo islamista aveva preso Mosul in due giorni e già era sembrata una cosa inaudita. La periferia è ad appena venti minuti di strada in macchina da Santa Maria al Tahira, ma a volte i fronti si raffreddano e durano per decenni, ci si illudeva che i fanatici non si sarebbero spinti oltre. Di solito è il contrario, le città sono più sicure e le campagne sono il dominio dei guerriglieri, ma in quel caso la situazione era rovesciata. A luglio il leader terrorista Abu Bakr al Baghdadi aveva parlato dal pulpito della moschea al Nuri, aveva chiesto a tutti i musulmani del mondo di trasferirsi nello Stato islamico per combattere o per dare il loro contributo professionale. Per i cristiani della piana era come convivere con una diga pericolante, se cede spazza via tutto ma si spera che regga. Fino al giorno in cui non ha retto più. 

 

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“Dovete andare via subito dicevo alle famiglie, non c’è un minuto da perdere. Era notte. Organizzammo dei convogli di macchine per portare in salvo il maggior numero possibile di persone e distribuire chi non aveva mezzi sulle macchine degli altri. Ricordo che quando spuntò il sole dovetti convincere due famiglie che non volevano lasciare le loro case, non credevano che stesse succedendo quel che stava succedendo”, dice al Foglio padre Ammar Altony Yako, della chiesa di Santa Maria al Tahira. Parla tranquillo in mezzo al chiostro mentre i soldati iracheni girellano fra le colonne di pietra e sotto la cupola rossa messa a nuovo. Indica un proiettile ancora incastrato nel muro esterno della cappella, poi l’ombra di una scritta cancellata ma ancora in qualche modo leggibile accanto alla piccola porta che conduce di sotto: al dawla al islamiya… lo Stato islamico. Ha uno sguardo come se fosse davanti a qualcosa che è sottinteso e non è il caso di comunicare a parole esplicite: sono venuti ad accanirsi contro di noi e ci volevano cancellare. “Alla sera al checkpoint d’ingresso a Erbil eravamo migliaia di persone” – Erbil è la capitale della regione curda e durante il periodo di occupazione dei fanatici nell’Iraq del nord è stato il primo avamposto della civiltà ad accogliere gli sfollati.

 

Mai così tanti cristiani iracheni si erano trovati tutti assieme. I testimoni raccontano: il rumore delle armi da fuoco e dei colpi che passavano sopra le teste, la lentezza dello spostamento che di solito si fa in meno di due ore e invece ci erano volute dieci ore, le quattro corsie della strada occupate da code di auto, la grande tettoia di lamiera del checkpoint, i peshmerga sbigottiti alle prese con l’esodo, la folla con le poche cose che riesce a portare e la sensazione di avere sempre gli aggressori alle calcagna, quasi a sbucare da in fondo alla fila di macchine. Quel giorno la presenza cristiana nella piana di Ninive che durava da millenni era finita.   

 

Nel febbraio 2014 Abu Bakr al Baghdadi era a Raqqa, la prima grande città della Siria a finire sotto il controllo dello Stato islamico. Emanò un editto che articolava in undici punti un cosiddetto patto di sottomissione da imporre ai cristiani della città. Gli esperti si accorsero che dal modo in cui parlava e per il titolo che si era assegnato – comandante dei fedeli – era chiaro che Baghdadi avrebbe presto deciso la proclamazione di un Califfato, che infatti arrivò quattro mesi più tardi.

 

Già nel 2008 lo Stato islamico aveva pubblicato un patto di sottomissione contro i cristiani di Mosul ed è possibile che a scriverlo sia stato lo stesso Baghdadi, che a quel tempo si occupava di affari religiosi per il gruppo terrorista proprio in quella regione. Subito dopo i fanatici avevano cominciato ad attaccare i cristiani in città. Ne avevano uccisi più di venti, incluse due suore, e avevano provocato una prima ondata di sfollati verso la piana. Ma nel 2008 erano un gruppo clandestino. Sei anni dopo invece erano un esercito organizzato, con una potenza di fuoco infinitamente superiore e con in testa sempre la stessa idea fissa della sottomissione dei cristiani e dello sterminio per chi rifiutava.  Adesso grazie alle confessioni dei fanatici catturati e a molta ricerca documentale sappiamo che in quei mesi dentro il direttorio dello Stato islamico si discutevano temi come: è lecito ridurre anche le cristiane in stato di schiavitù come le donne yazide – che come sappiamo furono vendute come bestiame e violentate per anni – oppure no? In teoria i popoli del Libro come i cristiani avrebbero dovuto godere di qualche protezione in più, ma sappiamo che si trattava di dibattiti crudeli. La cristiana americana Kayla Mueller, rapita in Siria, fu violentata per molti mesi da al Baghdadi. 

 

L’editto di Raqqa stabiliva che in base al Corano i cristiani nei territori dello Stato islamico avevano tre possibilità. Potevano sottomettersi e adeguarsi a tutta una serie di regole che li avrebbe trasformati in spettri: una tassa di protezione da versare ogni anno di molte migliaia di dollari, niente suono delle campane (punto due dell’editto), messe al chiuso senza che nessuno potesse vedere, niente croci (punto tre dell’editto) e altre imposizioni. Oppure potevano andarsene. Oppure potevano restare e non sottomettersi e in tal caso era come se avessero dichiarato guerra allo Stato islamico e andavano trattati come nemici. Nel presentare l’editto, i media dei terroristi usarono questo motto: “Oggi a Raqqa, domani a Roma”. 

 

I cristiani di Mosul e della piana di Ninive scelsero in massa la seconda opzione, andarsene via, e gli islamisti si spartirono le loro proprietà. Per un censimento rapido tracciarono la lettera N in arabo sulle case dei cristiani. La cattedrale di Santa Maria al Tahira divenne un centro di addestramento per i guerriglieri, che forse contavano sulla riluttanza dei bombardieri a colpire la ex chiesa più grande dell’Iraq. 

 

 Chris McGrath/Getty Images
  

Del resto, chi sarebbe stato così pazzo tra i cristiani da fidarsi e restare? Nell’ottobre 2010 lo Stato islamico attaccò a Baghdad la chiesa di Sayidat al Najat con il pretesto che in Egitto i cristiani copti avevano rapito due donne musulmane, era un episodio mai chiarito che forse è soltanto una leggenda urbana. Eppure una squadra di attentatori suicidi entrò durante una messa, prese in ostaggio i fedeli e quando arrivò la polizia cominciò a sparare. Morirono cinquanta persone e venerdì Papa Bergoglio subito dopo l’atterraggio è andato a parlare proprio in quella chiesa, nella sua missione per consolare e rassicurare i cristiani iracheni. Dopo quella strage il Grande ayatollah Ali al Sistani, la figura carismatica degli sciiti che oggi sabato 6 marzo incontrerà Papa Francesco per un colloquio storico, chiese al governo di proteggere i luoghi di culto dei cristiani. La visita del Pontefice di questi giorni è un capitolo importante di una storia che s’intreccia con tanti altri capitoli. Sempre con lo stesso pretesto delle due donne rapite dai copti, lo Stato islamico in Libia nel 2015 sequestrò ventuno cristiani egiziani e li decapitò su una spiaggia davanti a una telecamera montata su una piccola gru per rendere le riprese più fluide. Molti non si fidano ancora adesso. Dei quarantamila cristiani di Qaraqosh  dopo la sconfitta degli islamisti ne sono tornati soltanto in ventitremila. Gli altri hanno scelto di spostarsi altrove, la maggioranza in altri paesi. Questa esistenza fatta di paure e di pause felici non fa per loro. Sono numeri in linea con una tendenza più generale: quattro cristiani su cinque hanno lasciato l’Iraq dopo il 2003. 

 

“L’arrivo di Bergoglio è una gioia che ci fa quasi dimenticare tutto”, dice oggi il monaco Husam, in felpa e scarpe da ginnastica, e tutto attorno a lui c’è la bolla irreale della comunità cristiana di Qaraqosh. Le ragazzine giocano a pallavolo, e provano un balletto per la visita del Papa, le donne girano in jeans e senza veli, ci sono un campo sportivo in condizioni perfette e una biblioteca luminosa dove i libri in arabo che parlano di catechesi e vite di santi e storie illustrate tratte dalla Bibbia possono essere presi gratis. “Irreale” perché a soltanto quattro anni dalla guerra di liberazione potrebbe essere un qualsiasi oratorio di una città italiana e invece è a pochi chilometri dalla ex capitale dello Stato islamico. Le suore si fanno foto con una sagoma a grandezza naturale di Bergoglio  (la rappresentazione degli esseri umani, un’altra cosa vietata dagli islamisti). C’è un tentativo frenetico di tirare tutto a lucido. Grossi pannelli con il motto papale sulla fratellanza, “Siate tutti fratelli!”, coprono le case ancora in rovina dopo la battaglia del 2016. Le facciate delle case che affacciano sulla cattedrale sono ridipinte in tutta fretta, le cancellate riverniciate, le strade lavate, i marciapiedi rifatti meglio, con un’applicazione un po’ comica e molto appassionata del gusto iracheno per fare le cose all’ultimo minuto. Non c’è dubbio che l’ultimo colpo di pennello sarà dato mentre l’elicottero papale scenderà a mezzo chilometro da qui – su un piazzale appena asfaltato, non c’è bisogno di dirlo. 

  

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)