AP Photo/Ng Han Guan

Stretta autoritaria della Cina su Hong Kong

Giulia Pompili

Il Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo ha votato all'unanimità, secondo varie fonti dei media, la legge sulla Sicurezza nazionale. Il gruppo pro-democrazia Demosistō ha annunciato la fuoriuscita dei suoi membri fondatori. Ora che succede?

“Proteggi 'un paese, due sistemi'. Ripristina la stabilità”. Recita così un cartello del governo locale di Hong Kong per promuovere la Legge sulla sicurezza nazionale, posizionato in bella vista davanti a una delle lunghe arterie della regione amministrativa speciale. Ma la verità è che anche la comunicazione di questa legge, che sancisce di fatto la fine dell'autonomia dell'ex colonia inglese, è stata fatta alla maniera cinese: nessuno sa niente di quello che succederà.

   

Oggi il Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo ha votato all'unanimità, secondo varie fonti dei media, la legge sulla Sicurezza nazionale, che ora passerà velocemente attraverso il parlamentino di Hong Kong per entrare in vigore subito prima del primo luglio, il giorno dell'anniversario della riconsegna di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina – di solito accompagnato da proteste pro-democrazia.

  

Nessuno sa niente dei dettagli della legge perché è in un limbo oscuro, appunto, che Pechino si occupa dei suoi affari, senza che il resto del mondo possa guardare, o peggio ancora: giudicare. Come scriveva Will Ripley, corrispondente della Cnn da Hong Kong, il non aver rivelato i dettagli delle nuove norme ha avuto una prima conseguenza evidente: tutti hanno paura.

   

Non ci sono state manifestazioni di protesta, perfino i canali Telegram degli attivisti sono particolarmente silenti. Demosistō, il gruppo pro-democrazia nato nel 2016 che sostiene l'autodeterminazione per Hong Kong, stamattina ha annunciato la fuoriuscita dei suoi membri fondatori e più famosi - Joshua Wong, Nathan Law, Jeffrey Ngo, Agnes Chow – e la sospensione delle operazioni. Non si può fare attività politica senza riconoscere una legge fondamentale del nuovo corso giuridico di Hong Kong.

   

Secondo varie fonti, la nuova legge sulla sicurezza prevede sanzioni per quattro diversi reati, tra i quali la sedizione, l'attività terroristica e la collusione con entità estere. Le pene vanno dai 3 anni all'ergastolo. Secondo quanto riportato da RTHK, la legge non è retroattiva tranne che per certi casi: “Se le persone che hanno messo in pericolo la sicurezza nazionale negli ultimi due anni e sono ancora sospettate del crimine dopo la promulgazione della legge”.

 

Che cosa succederà ora?  Non è chiaro a nessuno, soprattutto non è chiaro come si muoverà la comunità internazionale. Durante il famoso discorso sulla Cina del 30 maggio scorso, il presidente americano Donald Trump ha minacciato di sospendere lo status speciale di Hong Kong e di sanzionare i funzionari cinesi responsabili delle violazioni dell'autonomia. Il 26 giugno il Dipartimento di stato ha annunciato alcune restrizioni sui visti nei confronti dei funzionari del Partito comunista cinese “responsabili dell'erosione dell'autonomia e dei diritti umani di Hong Kong”. La reazione di Pechino è stata altrettanto dura, e ha annunciato la limitazione dei visti per tutti quei cittadini americani che hanno avuto “relazioni” non meglio specificate con Hong Kong.

  

Come siamo arrivati fin qui? Da anni Pechino, e soprattutto con l'arrivo di Xi Jinping al potere,  aggira il trattato firmato nel 1997 con il Regno Unito che dispone l'autonomia di Hong Kong fino al 2047. Il principio di “un paese, due sistemi” è vantaggioso anche per la Cina continentale, ma le velleità democratiche dei cittadini di Hong Kong sono sempre state la spina nel fianco del Partito comunista cinese. A questo lento avvicinamento di Pechino all'ex colonia inglese corrispondono periodiche manifestazioni di massa e proteste. Esattamente un anno fa Ilaria Maria Sala raccontava sul Foglio “il sequestro di Hong Kong”, e le manifestazioni che hanno caratterizzato il 2019, fino all'inizio della pandemia. Proprio a gennaio avevamo raccontato la trasformazione di queste proteste ma soprattutto il ruolo di Carrie Lam, chief executive del governo locale di Hong Kong, che rappresenta la rottura del patto sociale tra governanti e governati.

 

Il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, la scorsa settimana, in una lunga intervista a Matteo Matzuzzi ha spiegato: “Le autorità pensano che tutto debba essere schiacciato per imporci una legge fatta da loro. Non c’è nulla di buono da aspettarsi e noi non possiamo opporci se non con la voce. Ma ci vogliono togliere pure quella”. Il progetto cinese per Hong Kong è questo: mantenere un certo tipo di autonomia del business ma di controllare la società proprio come fa nel resto della Cina.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.