Un autobus di Caracas (foto LaPresse)

La “quarantena sociale” di Maduro

Maurizio Stefanini

Il regime venezuelano combatte il coronavirus con misure restrittive, contando sulla fine delle proteste e l’arrivo di fondi dal Fmi

Non semplicemente “Quarantena”, ma “Quarantena Sociale” è stato definito il provvedimento che per combattere il coronavirus è stato annunciato dal presidente del Venezuela Nicolás Maduro lunedì 16 marzo e che è poi effettivamente partito martedì 17. Il primo stato dell’America Latina a prendere la decisione, anche se altri seguono.

  

In effetti non c’è troppo di diverso da quanto stiamo vedendo in Italia e ormai anche in Europa. Salvo che quello è un paese dove l’economia è già devastata da anni di malgoverno, l’invadenza governative negli affari dei privati già alta salvo il limite della inefficienza, e il sistema sanitario talmente a pezzi che già da tre anni nella regione era in allarme per il timore che dal Venezuela si spargessero almeno sei epidemie: di malaria, difterite, Tbc, scabbia, morbillo e Hiv. Dopo che i primi due malati erano stati rilevati il 13 marzo, i casi erano saliti a 17 al momento della dichiarazione presidenziale, e a 36 nella prima settimana, senza ancora alcun morto. Altri paesi della regione con più casi e anche vittime hanno reagito con più calma, e alcuni leader latino-americani hanno addirittura ritenuto che il modo migliore per affrontare la crisi fosse quello dei bagni di folla: dal brasiliano Jair Bolsonaro al messicano Andrés Manuel López Obrador o al nicaraguense Daniel Ortega. Per non parlare di Cuba che continua a fare promozione turistica a tutto spiano: salvo poi rispedire indietro gli stranieri che all’aeroporto di arrivo risultino positivi.

 

Maduro è improvvisamente diventato responsabile? In realtà prima ancora che la “Quarantena Sociale” venisse decretata in molti avevano scommesso che si sarebbe approfittato dell’emergenza per costringere in casa i venezuelani, e impedire così il montare delle manifestazioni che l’opposizione aveva ripreso a organizzare a partire dal ritorno di Juan Guaidó dal suo ultimo giro internazionale. Ma ancora più importante era evidentemente l’altra motivazione che è emersa pure lunedì 16, quando quasi in contemporanea all’annuncio della “Quarantena Sociale” Maduro ha pure comunicato che il suo governo avrebbe chiesto al Fmi un prestito da 5 miliardi di dollari. Assolutamente clamoroso, se si tiene presente che Chávez aveva tentato il suo golpe del 1992 proprio per “vendicare” le vittime della repressione della rivolta popolare del 1989 contro il pacchetto di austerity imposto dal Fmi. E ancora nel 2015 Maduro aveva detto che “che chi consegnasse il nostro paese al Fondo Monetario Internazionale sarebbe un grande traditore e il popolo avrebbe il diritto di scendere in piazza un’altra volta”. Adesso invece la richiesta di prestito è stata indirizzata all’”Onorevole Organismo”, con la maiuscola.

 

Ma l’Fmi aveva appena fatto sapere che avrebbe dato una mano ai governi impegnati nella lotta al coronavirus. E intanto la ulteriore caduta del prezzo del petrolio dovuta alla pandemia aveva non solo allontanato ogni speranza di alleviare a breve la crisi finanziaria del regime di Caracas, ma aveva anche fatto saltare il “piano B” di una privatizzazione mascherata della società petrolifera di stato Pdvsa a favore dei russi. L’ipotesi in nome della quale Maduro aveva iniziato l’anno provando a chiudere l’ingresso dell’Assemblea Nazionale ai deputati di Guaidó, in modo da far eleggere un nuovo presidente dell’organismo disponibile a formalizzare l’accordo.

  

Non c’è però riuscito, e a questo  punto Guaidó si è messo in mezzo anche ai miliardi del Fondo Monetario Internazionale. “Sfortunatamente il Fondo non è in condizione di considerare questa sollecitudine perché non c’è chiarezza sl riconoscimento internazionale del governo di Caracas”, è stata la risposta. Anche diplomatica, nel non dire direttamente di brutto muso che Maduro sarebbe un presidente illegittimo. Comunque, in realtà probabilmente Maduro non si faceva troppe illusioni. Però la mossa servirebbe a segnalare che se il coronaviris è emergenza allora c’è bisogno di trattare anche con lui per affrontarla, e che lui è disponibile. La Colombia in particolare ha quasi il triplo dei casi del Venezuela, e il governo di Duque è chiaramente in imbarazzo tra il suo riconoscimento a Guaidó sul piano del diritto e la necessità di coordinarsi col potere effettivo di Maduro sul piano del fatto. In effetti, i due ministri della Sanità colombiano  Fernando Ruiz e venezuelano Carlos Alvarado si sono parlati per 46 minuti, in una teleconferenza.

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