Sei morti e 298 contagi accertati, e almeno quattro pazienti infettati sono stati già identificati a Taiwan, in Thailandia, in Giappone e in Corea del sud. E poi il primo a Waschington (foto LaPresse)

Il misterioso virus in Cina è anche un nuovo test di credibilità per Pechino

Giulia Pompili

Il primo caso in America dopo quelli in Asia

Roma. Come spesso succede, la prima reazione sul nuovo tipo di polmonite che si sta diffondendo in Cina è stata la negazione. Ma con l’intensificarsi dei contagi anche fuori dai confini cinesi, il governo centrale di Pechino è stato costretto a uscire allo scoperto e a condannare i governi locali che probabilmente stavano cercando di minimizzare l’emergenza. Lunedì è stato confermato il sospetto del contagio tra uomo e uomo, non solo tra uomo e animale, e il ministero degli Esteri cinese si è reso disponibile a collaborare con le autorità dell’Organizzazione mondiale della sanità per studiare una soluzione e fermare la diffusione del virus. Mercoledì a Ginevra ci sarà la riunione dell’Oms per decidere se dichiarare l’emergenza oppure no. Al momento sappiamo che ci sono sei morti e 298 contagi accertati, e almeno quattro pazienti infettati sono stati già identificati a Taiwan, in Thailandia, in Giappone e in Corea del sud. Martedì c’è stato il primo nello stato di Washington, in America. Tutte queste persone hanno viaggiato recentemente a Wuhan oppure venivano proprio dalla città della Cina centrale, una megalopoli da undici milioni di abitanti. Wuhan è il luogo dove secondo le autorità è iniziato il contagio, e che da martedì è in una specie di quarantena forzata, con un capillare sistema di informazione porta a porta che obbliga i cittadini con oltre 37 gradi di temperatura a recarsi in ospedale per i test.

 

Gli scienziati cinesi già da qualche tempo parlano di un “nuovo tipo di coronavirus”, cioè probabilmente il nuovo ceppo di un virus che è la causa di altre malattie non mortali. Un nuovo ceppo non significa necessariamente un virus più aggressivo, oppure più mortale, ma il fatto di conoscere ancora poco della malattia e della sua eziologia porta a una confusione estrema sui numeri, sui contagi, e più aumenta la confusione più aumenta la psicosi. Scriveva martedì il New York Times che “la crisi sta mettendo alla prova il leader cinese Xi Jinping, e l’abitudine del Partito comunista a mantenere la segretezza su certe cose”. Quando parliamo di Pechino tutto diventa politica, e la nuova Cina di Xi deve mostrare al mondo di essere una potenza responsabile in grado di tenere sotto controllo un’epidemia. Per giunta in un periodo molto difficile, perché il Capodanno lunare, che si celebra venerdì, è tradizionalmente il momento dei viaggi per i cinesi, che tornano a casa oppure vanno in vacanza.

 

Ma c’è anche una questione interna. Per Pechino le questioni che riguardano la Salute pubblica sono cruciali, perché sono le uniche che in passato hanno creato problemi alla tenuta e alla credibilità del governo centrale. Perfino i cittadini cinesi sono sospettosi ogni volta che si parla di biosicurezza. Basta ricordare lo scandalo del latte in polvere nel 2008, il virus dell’influenza H1N1 nel 2009, lo scandalo dei vaccini dieci anni dopo, ma soprattutto la Severe acute respiratory syndrome o Sars, che è stato un trauma per l’intera area asiatica. Non solo per la paura del contagio, ma anche per l’isteria di massa e, soprattutto, per il sospetto che il governo non stesse dicendo tutta la verità.

 

Se prendete un aereo verso oriente, all’atterraggio esistono misure di sicurezza per prevenire l’ingresso di virus – in quasi tutti gli aeroporti, da Tokyo a Hong Kong, si passa attraverso uno scanner della temperatura, che cambia colore anche solo per un raffreddore. Quasi tutti gli aeroporti si sono dotati di certe misure di sicurezza, compresi i distributori igienizzanti per le mani che sono un po’ ovunque, dopo la crisi della Sars, una forma atipica di polmonite che ebbe una pericolosa diffusione a partire dal novembre del 2002. I primi casi si verificarono allora nella provincia cinese di Guangdong, e quattro mesi dopo il governo annunciò la morte di cinque persone per il virus e il contagio di più di trecento. Alla fine del 2003, quando l’Oms dichiarò finita l’emergenza, i morti per la Sars furono 774, con poco più di ottomila casi in trentasette paesi – la maggior parte, però, in Cina e a Hong Kong. Come notava Bill Bishop nella sua newsletter, martedì la Commissione centrale per gli affari politici e giuridici di Pechino – l’organo politico responsabile dell’ordine pubblico – ha chiesto ai funzionari del Partito “di non dimenticare la dolorosa lezione della Sars e di garantire la tempestiva comunicazione della situazione”, usando parole non proprio tenere: “Chiunque metta la politica davanti agli interessi dei cittadini sarà il peccatore del millennio per il Partito e il popolo”. E poi: “Chiunque ritarda deliberatamente oppure nasconde casi del virus per interesse personale sarà inchiodato sul pilastro della vergogna per l’eternità”. E’ un nuovo test per Pechino e per la sua classe dirigente.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.