Un'immagine dei funerali del generale Suleimani a Teheran (foto LaPresse)

“Ora gli iraniani conoscono la linea rossa da non oltrepassare”. Parla Bremmer

Annalisa Chirico

Il politologo americano: “La decisione di eliminare il generale Suleimani è la mossa militare americana più ardita dai tempi della guerra in Iraq. Per Donald Trump è un successo”

“La decisione di eliminare il generale Suleimani è la mossa militare americana più ardita dai tempi della guerra in Iraq. Per Donald Trump è un successo: ha ristabilito una deterrenza nei confronti dell’Iran ponendo le basi per un nuovo accordo sul nucleare”. Ian Bremmer, politologo di area liberal e presidente di Eurasia Group, si ritaglia il tempo per una conversazione con il Foglio.

 

“La politica americana verso Teheran ritorna ai suoi fondamentali: netta opposizione al deal risalente all’amministrazione Obama, nuove sanzioni per aumentare la pressione economica sul paese e costringerlo a negoziare un accordo ‘nuovo e migliore’, nelle parole di Trump”. Sembra uno schema consolidato, quello trumpiano: il presidente azzanna per poi risedersi al tavolo con più forza. “Il messaggio agli iraniani è arrivato forte e chiaro: se provate a colpirci, ecco che cosa vi accade. E’ accaduto recentemente con il Messico: Trump ha minacciato pesanti conseguenze economiche contro i flussi migratori. Risultato: il presidente Lopez Obrador ha dimezzato gli ingressi illegali nel giro di due mesi”. Come nella guerra commerciale con Pechino, anche con Teheran Trump propone un accordo in due fasi. “Il suo obiettivo è avviare nuove trattative in assenza di precondizioni, del resto lui si considera un ‘master dealmaker’. Al posto delle attuali clausole di estinzione a dieci anni, Trump vuole un meccanismo progressivo che coinvolga il programma di missili balistici e il supporto a organizzazioni classificate come terroristiche dall’America”.

 

Lungi dal ricompattare l’opinione pubblica iraniana, l’intervento di Trump, unito alla caduta dell’aereo ucraino con 176 passeggeri, ha innescato una gigantesca perdita di credibilità per il regime. “Se consideriamo gli effetti della crisi economica e il modo in cui è stata gestita la tragedia aerea, le proteste di piazza non sorprendono”. Il capo dell’aviazione civile iraniana ha dichiarato di avere informato il regime dell’errore lo stesso giorno dell’accaduto, eppure per settantadue ore Teheran ha nascosto la verità al mondo intero. “Un portavoce del governo si è spinto a parlare di ‘guerra psicologica’ mentre gli esperti locali sostenevano che l’errore fosse ‘scientificamente impossibile’. Questo sbaglio costerà caro al regime: gli alleati degli Stati Uniti erano già orientati ad attivare il meccanismo di risoluzione delle controversie, previsto dal Piano d’azione congiunto globale, uno step significativo verso la reintroduzione delle sanzioni Ue e Onu. Adesso, dopo questa ammissione di responsabilità, la pressione verso un attore ritenuto irresponsabile aumenta e all’Iran resta un margine di manovra assai scarso”.

 

L’uccisione di Suleimani è stato un colpo di testa? “Non scherziamo. E’ vero che nell’inner circle trumpiano, dopo l’uscita di figure come Mattis, McMaster e Kelly, prevalgono consiglieri abbastanza inclini ad assecondare le idee del presidente, incluso il segretario di stato Mike Pompeo, un vero falco. Tuttavia la reazione degli Stati Uniti giunge dopo quasi un anno di escalation iraniana, dagli attacchi alle petroliere saudite fino all’assedio dell’ambasciata in Iraq (la più grossa e costosa nel mondo). Gli iraniani ignoravano quale fosse la linea rossa da non oltrepassare, adesso la conoscono”. Con la nomina dell’ex numero due, Esmail Ghaani, a capo delle forze al Quds, il vuoto lasciato da Suleimani viene colmato? “Lui resta una figura unica nel suo genere per la rete e l’autorità che è riuscito a instaurare attraverso la costituzione e il supporto alle milizie in Siria, Iraq, Yemen, Gaza e anche oltre. Adesso però il rischio terroristico si amplifica perché gli attuali vertici esercitano un minore controllo sulle attività di questi gruppi mentre aumenta la probabilità di iniziative locali autonome, non coordinate da Teheran, soprattutto in territorio iracheno dove l’ostilità sciita verso l’occupante americano si è acuita”.

 

L’eliminazione di Suleimani e l’intervento americano a dicembre, dopo l’uccisione di un contractor di nazionalità americana, sono avvenuti senza l’approvazione del governo iracheno. “C’è una risoluzione non vincolante del Parlamento di Baghdad che chiede il ritiro delle forze americane. L’esercito degli Stati Uniti ha aggiunto confusione inviando una lettera al ministero della Difesa per annunciare il ritiro, salvo poi fare marcia indietro… Il rischio, ben noto al primo ministro Mahdi, è che un eventuale ritiro americano trasformi il paese in un protettorato iraniano, per giunta soggetto alle sanzioni degli Stati Uniti”. L’occidente può consentire all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare? “La risposta è negativa. Teheran non rispetta da diversi mesi gli obblighi relativi all’uranio (i livelli di potenziamento, il numero di centrifughe operative, i vincoli sulle riserve). Se oggi il paese, sul piano economico e militare, è obiettivamente più debole rispetto agli inizi dell’amministrazione Trump, sul versante nucleare il cosiddetto breakout time (il tempo necessario al raggiungimento della soglia nucleare, ndr) si è ridotto e i progressi compiuti nel campo della ricerca e dello sviluppo di questa tecnologia sono irreversibili. Il nucleare iraniano non è un problema solo per Stati Uniti e Israele ma per tutto il mondo libero”.

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