Boris Johnson e la sua grande maggioranza
Vittoria schiacciante dei Tory alle elezioni inglesi. “Devastante” sconfitta per il Labour. Lib-dem male, solo in Scozia c’è un’opposizione
“Devastante”: di rado i politici di primo piano usano parole così definite e definitive. Ieri sera però Barry Gardiner, Labour di ferro, fedele uomo di Jeremy Corbyn, e membro del suo governo ombra, forse perché travolto dalla delusione, si è lasciato andare a un commento insolitamente schietto "una sconfitta devastante". Non solo: “Se è così - ha continuato - è un risultato devastante non solo per noi e il nostro partito, ma per tutte le persone che avevano davvero bisogno di una vittoria laburista per migliorare le loro vite'. Devastante o meno che fosse, prevedibile o meno che fosse, esiziale o meno che si riveli nei prossimi mesi, il risultato delle elezioni del 2019 è chiaro. Vince Boris Johnson, perde Jeremy Corbyn, vince (per la seconda volta, a questo punto) il Leave e perdono ogni adesione alla realtà le richieste degli europeisti, di quelli del People’s Vote e del Reverse Brexit. Da oggi Brexit non è più in discussione, nemmeno per sbaglio, hai voglia a far marce.
Da oggi inizia una nuova fase della politica inglese, con un Partito conservatore senza freni. Non ne ha più, né in termini di opposizione parlamentare (è prevista una maggioranza di 78 seggi, per di più tutti fedelissimi, non più liberi pensatori e cani sciolti come erano molti della pur risicata maggioranza di Theresa May) né in termini di consenso elettorale, al momento amplissimo.
Di fatto Johnson, che fino a poche ore fa era attaccabile e attaccato perché debole e diventato premier solo in virtù di una conta interna al partito conservatore, da oggi può fare (quasi) tutto quello che vuole. Non è ben chiaro cosa intenda fare. Mentre Corbyn nella sua campagna elettorale aveva cercato di lasciare in secondo piano Brexit, per concentrarsi su un articolato (discutibile finché si vuole, ma senza dubbio puntuale) programma elettorale, il leader conservatore ha puntato tutto su una fumosa ma chiara e comprensibile promessa di "Get Brexit Done" ed evitato di rispondere nel merito rispetto a temi come i tagli al sistema sanitario, i futuri rapporti con gli Stati Uniti o la crisi economica nelle aree più povere a nord del paese. Eppure, ironia della sorte, proprio dalle aree più povere, quelle che un tempo erano roccaforti laburiste, è arrivata la vittoria e gli operai che un tempo votavano compatti Labour hanno preferito una radicale Brexit al socialismo in salsa inglese di Corbyn.
Ora quindi, assodati i primi tre preclari risultati (Johnson ha vinto, Corbyn ha perso, la Brexit è stata confermata dagli elettori con quello che di fatto è stato un second vote) restano sul tavolo varie questioni.
La prima: cosa sarà di Jeremy Corbyn e del suo Labour tutto sbilanciato a sinistra? Niente di buono, ci spiace per loro. Se le dimissioni del leader sembrano ormai cosa certa, meno certo è il futuro possibile del partito. I laburisti, in queste ore, sono tramortiti da una mazzata che non si aspettavano e che non avevano visto arrivare. Certo, sapevano che avrebbero perso. Ma non pensavano sarebbe successo con queste proporzioni. E così ora non sanno che fare. La via del New Labour e di un partito che guarda al centro appare sbarrata e sembra improbabile che si possa aprire un nuovo corso in tal senso. Lo stesso però vale anche per la via della sinistra radicale, altrettanto sbarrata, se non di più, visti i risultati catastrofici di ieri. Dunque dove andare? Dove cercare (ancora, nel 2020) l’ennesima terza via?
La seconda questione aperta è: cosa farà il governo di Boris Johnson? A parte "Get Brexit Done", bene inteso? Non è del tutto chiaro. Il premier ha puntato tutto su Brexit. E, è evidente, ha avuto ragione. Dal 31 gennaio, o giù di lì, gli toccherà trovare qualcos’altro di cui parlare. E ci permettiamo di consigliargli di trovare un tema che sia un po’ meno divisivo.
La terza: te li ricordi i Lib-Dem? Già. Sono da anni la promessa della politica inglese e, oggi, a questa promessa non crede quasi più nessuno. Incaponitisi su una campagna elettorale sterile, con un solo tema pigliatutto ("reverse Brexit") sono riusciti nell'impresa di far perdere voti ai Labour senza guadagnarne per sé. Un capolavoro al contrario. Persino la leader Jo Swinson ha perso il suo seggio (sorte toccata anche al leader del Partiti conservatore irlandese, Nigel Dodds).
A questo punto i Lib-Dem devono ripartire da capo. Ma tanto. Anche perché dal 2016, non hanno altra identità che non sia quella di essere europeisti. Anche loro dovranno trovarsi un altro feticcio.
La quarta questione è: la Scozia. C’è solo una persona, nel Regno Unito, che ieri sera, ha vinto più forte di Boris Johnson e si chiama Nicola Sturgeon, la premier scozzese. Il suo Scottish National Party ha fatto cappotto e ha preso, in Scozia, 50 seggi su 59. Un successo basato sulla popolarità della premier scozzese ma anche, se non soprattutto, sulla volontà di ripetere il referendum per l’indipendenza del 2014. A quell’epoca vinsero gli unionisti. Ma era una Brexit fa, e da allora tutto è cambiato.
L'editoriale dell'elefantino