Elogio della traduttrice che senza parole ha tradotto il mondo di Trump

Maurizio Crippa

Con la mimica facciale Elisabetta ha reso comprensibile il non traducibile. Una lectio magistralis su come rendere chiaro a tutti che cosa significhi vivere su pianeti differenti: quello reale e quello secondo The Donald

Si chiama Elisabetta (la chiamano così su Twitter, ammesso che non mentano, as usual), Elizabeth in traduzione simultanea, la magnifica signora, la brava professionista che lavora come traduttrice al Quirinale e che mercoledì nello Studio Ovale ha inventato, eroina per caso o fata buona delle parole, un modo nuovo, a prova di barriere linguistiche, per comunicare a tutti l’indicibile. Il non comprensibile. Il non traducibile. Una lectio magistralis, keynote address in traduzione, su come rendere chiaro a tutti che cosa significhi vivere su pianeti differenti: il mondo, e il mondo secondo The Donald. Senza parole, ma con il linguaggio dei segni, anzi la mimica facciale. E’ stata anche una lezione su come siano cambiate la politica e la diplomazia al tempo dei video, delle immagini che diventano subito meme e dei meme che diventano sticker e degli sticker sugli smartphone che diventano il commento a tutto quello che c’è da dire: la traduzione universale senza più bisogno di parole.

  

Ha fatto in poche ore il giro del mondo, acclamato e adottato come quello di una star, il suo viso austero incorniciato di capelli biondo cenere. Un viso professionale e destinato per professione a rendersi invisibile. E che invece l’altro ieri, nello Studio ovale, incastonato tra le spalle invadenti di Donald Trump e quelle un po’ incassate di Sergio Mattarella, s’è preso il centro della scena, il senso e gli applausi. Mentre cambiava d’espressione, mentre provava a star dietro, con la sua agendina di appunti, al fiume di parole irrituali e fuori registro del padrone di casa. Prima un alzare di sopracciglia, poi uno sbarrare di occhi, poi un crescendo di smorfie, un lampo di terrore dentro lo sguardo, le labbra che si arricciano in cerca di parole che non tornano. E uno sguardo atterrito verso il distinto signore italiano cui avrebbe dovuto, tra pochi istanti, riferire con assoluta fedeltà il significato letterale del fiume di parole e dei mulinelli di vento del presidente degli Stati Uniti d’America: Donald Trump. Non è vero che l’abbia chiamato addirittura Mozzarella, lo ha chiamato soltanto “Sergi”, forse per par condicio con Giuseppi. Ha dichiarato stentoreo, come Antonio sulla bara di Cesare, che l’America e l’Italia sono amici fin dal tempo dell’antica Roma, e questo per par condicio con la democrazia francese millenaria di Di Maio. Come si fa a tradurlo? Se sei una professionista dell’arte difficile della traduttologia, in cui ogni inflessione di voce è un tradimento? Il climax è stato il server. Il server ucraino. “Where is the server”, “chiedo all’Fbi dov’è il server”, “come mai l’Fbi non ha mai ottenuto il server?”, “voglio vedere il server”, “vediamo cosa c’è sul server”. Come lo traduci tutto questo, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella?

  

 

Abbiamo riso tutti, fino alle lacrime, in un’esplosione di gioia inconscia. Perché finalmente capivamo. Abbiamo riso mentre sui social di mezzo mondo rimbalzavano commenti sull’eroica traduttrice che non poteva più tradurre, se non con lo sguardo: “No worry! We don’t understand him either”. Ovvio che da un tipaccio come The Donald è sempre preferibile sentirsi gridare “I want to see the server” anziché “I want to hold your hands”. Ma è stata una cosa naturale, come una scoperta, per lei. E per tutti la liberatoria risata contro un linguaggio incomprensibile, epperò capace di minare il mondo. E’ stata una rivelazione. La brava traduttrice del nostro cuore è riuscita nell’utopia di trovare un linguaggio che riunisse tutti. Non sapeva come comunicare l’horror di trovarsi non alla Casa Bianca, ma a bordo della Stultifera navis, la nave dei folli. E ha detto, con un colpo d’occhi: non badate a quel che traduco, non leggete le mie labbra, guardate questa sequenza di sticker che vi mando in diretta, ci capiamo tutti. Tranne il buon presidente Mattarella, che l’aveva di spalle, e pochi secondi dopo avrebbe ascoltato la voce della fedele Elisabetta. E sarebbe trasalito in cuor suo. Ma con contegno.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"