Un uomo guarda una lapide commemorativa della rimozione della barriera che rappresentava la Cortina di ferro (LaPresse)

L'estate calda dell'est Europa

Micol Flammini

Proteste, voglia di democrazia e il ricordo di Sopron tra Merkel e Orbán. L’Europa orientale chiede di non tornare indietro di trent’anni

Roma. Lunedì a Sopron, città ungherese di frontiera, tra l’ovest e l’est, verranno celebrati i trent’anni da uno dei primi grandi eventi europei, anzi paneuropei. Trent’anni fa venne aperto il confine tra l’Austria e l’Ungheria, soltanto per tre ore, per dimostrare che i cittadini erano stanchi di quel filo spinato che divideva l’Europa in due blocchi. Le maglie della Cortina di ferro iniziarono ad aprirsi da quel momento e l’idea di potersi muovere, di spostarsi e di veder cadere uno a uno i regimi dell’est si trasformò in un progetto concreto. Lunedì si ritroveranno a Sopron Angela Merkel e Viktor Orbán. Lei simbolo dell’Europa liberale, lui di quella illiberale. Tutti e due al quarto mandato, tutti e due con alle spalle una giovinezza trascorsa sotto l’influenza sovietica. Il 19 agosto del 1989 si aprì il primo varco nella Cortina di ferro, festeggiare e ricordare ha un valore enorme per la storia dell’Unione se non fosse che i simboli, trent’anni dopo, sono cambiati e le differenze di allora tra l’est e l’ovest stanno tornando e le nazioni dell’Europa orientale chiedono più democrazia per non dover tornare indietro.

   

Angela Merkel ci teneva a essere presente alla cerimonia di Sopron, nonostante le crisi esterne e interne, in Germania e nel partito, nonostante gli impegni e nonostante le vacanze. E’ tornata al lavoro dopo un breve villeggiatura sulle Alpi, per rappresentare non soltanto Berlino, ma anche Bruxelles. Orbán invece sarà lì in rappresentanza della nazione, la sua, che, da quella città, aveva iniziato a forzare un varco alla ricerca di democrazia. 

   

Ma la commemorazione di Sopron sarà anche l’occasione per ripensare a cosa è accaduto a quell’ansia di democrazia che iniziò a tirare giù un regime dopo l’altro, dall’Ungheria alla Polonia, dalla Cecoslovacchia alla Romania. Secondo l’Economist i paesi dell’Europa orientale sono quelli in cui la democrazia è più in pericolo. Dal 2006 e soprattutto negli ultimi mesi, dicono i dati riportati dalla rivista britannica, le istituzioni e lo stato di diritto hanno subìto dei colpi durissimi. Ma la storia, spesso, si muove in circolo e trent’anni dopo quegli stessi stati sono protagonisti di proteste importanti contro i loro governi.

  

L’estate calda dell’est Europa è iniziata a Praga, dove i cechi hanno organizzato delle manifestazioni, le più numerose dalla fine del comunismo, per chiedere le dimissioni del primo ministro Andrej Babis, accusato di corruzione; in Polonia invece ogni fine settimana e ogni giorno di festa i cittadini protestano contro le leggi del governo nazionalista del PiS, in vista delle elezioni parlamentari del 13 ottobre. La Romania ha iniziato una protesta testarda e sistematica in varie parti della nazione, nella città di Sibiu, ad esempio, da oltre cinquecento giorni i cittadini scendono in strada per quindici minuti per protestare contro la corruzione del Psd, il partito socialista che governa dal 2016. In Slovacchia, invece, le manifestazioni si sono fermate soltanto dopo l’elezione di Zuzana Caputová a presidente della nazione: un volto europeista che si è dichiarato pronto a ridare forza al progetto comunitario e a intraprendere una lotta ferma contro la corruzione. Tutte queste manifestazioni chiedono l’intervento dell’Europa e nei cortei, tra uno slogan e l’altro, spunta sempre la bandiera blu con le dodici stelle. Le proteste sono anche un tentativo di richiamare l’attenzione di Bruxelles e denunciare che la democrazia, a est, comincia a non stare più tanto bene. Trent’anni fa, a Sopron, gli europei capirono quanto fosse importante muoversi liberamente tra i confini, e da quel primo varco, che era una promessa, credettero che la democrazia potesse arrivare anche da quelle parti. La invocavano affinché rimanesse. Oggi protestano affinché non se ne vada.

   

Qualche giorno fa, intervistata da un giornale tedesco, l’Ostsee Zeitung, Angela Merkel alla domanda cosa spera che un giorno i libri di storia diranno di lei, ha risposto: “Ha tentato”. Non era l’ammissione di un fallimento, era piuttosto il modo diplomatico, sincero e merkeliano di dire: “Io c’ero ed ero pronta, sempre”. Anche a Sopron, al fianco del capo del mondo illiberale europeo, lei ci sarà ed è pronta e fermare il ritorno del mondo così come lei lo ha conosciuto trent’anni fa. Prima di Sopron.

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