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L'incapacità di pensare l'Europa

Alfonso Berardinelli

Bene filosofi e letterati, ma l’uomo comune dove incontra questa esperienza?

Pensare l’Europa”… Ci riusciremo mai? I professionisti del pensare, i filosofi, contano sul loro particolare modo di pensare e parlano di Europa come “patria del logos” e della democrazia, scambiano la “polis” greca con le società moderne, gli stati attuali, le economie e i mercati globali. Se invece consultiamo letterati e storici della cultura, allora si parlerà di umanesimo, laico o religioso, della loro eclisse o fine, della loro gloria o della loro sconfitta storica. Ma il cosiddetto “uomo comune”, i cittadini, i consumatori, gli elettori, gli utenti di servizi, femmine e maschi, insomma i più diffusi e numerosi tipi di esseri umani, riescono a pensare l’Europa? Dove la trovano, dove la incontrano, dove la vedono nelle loro comuni e limitate esperienze?

 

Come lettore di giornali e riviste, cerco anche io di capire e pensare l’Europa, ma sono spesso in difficoltà. Secondo alcuni filosofi, per esempio quelli che compaiono nel volume L’Europa di Simone Weil. Filosofia e nuove istituzioni (Quodlibet) a cura di Rita Fulco e Tommaso Greco, prefazione di Roberto Esposito, introduzione di Giancarlo Gaeta, l’Europa è “di fronte a un appello epocale, al quale occorre rispondere filosoficamente prima ancora che politicamente”, scrive Rita Fulco. Nel suo saggio, che apre il volume, trovo riferimenti a una “filosofia della migrazione” della filosofa Donatella Di Cesare che riflette sul tema dello “straniero” attraverso il pensiero di Levinas, Freud, Carl Schmitt e Jacques Derrida. Trovo anche frasi come questa: “E’ innegabile che nell’ultimo decennio in Europa sia stato propagandato l’aspetto minaccioso di quella che è stata definita ‘l’invasione’ dei migranti, i quali, di conseguenza, sono stati catalogati come ‘nemici’”.

 

Credo che con questo modo di pensare ci si renda facile il pensiero e la vita. Evidentemente quella dei migranti non è un’invasione né bellica né barbarica; ciò non toglie che sia un problema per l’Europa e la maggioranza degli europei non propriamente intellettuali, che hanno di fronte per la prima volta, dopo secoli e secoli e nel corso di una crisi economico-sociale acuta difficilmente governabile e superabile, l’arrivo non arrestabile, soprattutto dall’Africa e da guerre mediorientali ma non soltanto, di migliaia di persone traumatizzate dalla sventura, dalla violenza, dalla mancanza di lavoro, cibo, sicurezza, assistenza sanitaria e comunità.

 

Le resistenze che si manifestano in tutti i paesi europei nei confronti di un’ondata migratoria incontrollata non è, se non in casi estremi e patologici “odio per il nemico”: è soprattutto ansia e timore circa la capacità europea e nazionale di accoglienza reale e di vera integrazione sociale e culturale di grandi masse provenienti da mondi in tutti i sensi remoti. Si dice che le migrazioni verso l’Europa dureranno chissà quanti decenni e che quindi si tratta di un fenomeno, “epocale”. Ma subito dopo si dimentica che questa lunga durata del fenomeno significa grande quantità numerica e mutazione dell’assetto quotidiano e dello stesso scenario fisico delle nostre società. Come si può ragionevolmente credere che tale entità del fenomeno non susciti ansie sociali in un’Europa già poco capace di governare se stessa?

 

Il libro sulla Weil e l’Europa è interessante perché segnala una giusta e concentrata attenzione sul pensiero di questa autrice, troppo a lungo filosoficamente trascurata e sottovalutata proprio dai filosofi. Ma temo che per l’Europa sia tardi per ispirarsi moralmente, politicamente, giuridicamente alle riflessioni weiliane dei primi anni Quaranta del secolo scorso. La “logica economicistica in tutti i settori della vita pubblica e privata” (come dice Gaeta) è la robusta, inamovibile radice della nostra Europa unita e disunita, non meno che dell’intero mondo. Il pensiero della Weil è stato un corpo estraneo nella filosofia professionale del Novecento: attualizzarlo e attuarlo politicamente oggi temo che sia un'illusione, nonché un’esibizione, accademica.

 

Se da un libro di filosofia passo a qualche articolo di giornale, incontro per esempio due politologi, Gianfranco Pasquino e Sergio Fabbrini. Il primo (sul Corriere del 14 luglio) difende la democraticità delle istituzioni europee e delle procedure di legittimazione, diretta o indiretta che sia. Le sue ultime battute, però, aggiungono qualcosa di non secondario: 1) “Quando sono i cittadini europei che ritengono che di democrazia in Europa non ce ne sia abbastanza e che funzioni male, allora, comunque, dobbiamo preoccuparci. (…) E’ un problema di esagerata apertura dell’Unione a tutti i numerosi e potenti gruppi di pressione nazionali e transnazionali che difendono interessi particolaristici”; 2) “L’Unione, che è democratica, deve diventare più trasparente esplicitando le posizioni dei decisori, i conflitti, le proposte di soluzioni alternative. Renderebbe possibile valutare le responsabilità del fatto, del non fatto e del malfatto, per premiare o punire rappresentanti e governanti”.

 

Insomma: non ci si può accontentare delle procedure formalmente democratiche se le responsabilità effettive sono occultate. Non è poco. Una democrazia che non abbia i mezzi per autocontrollarsi e autocorreggersi è ancora tale?

 

Il discorso di Sergio Fabbrini (sul Sole 24 Ore del 21 luglio) è geometricamente labirintico nel commentare che cosa è avvenuto con l’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Si chiede Fabbrini: “Come mai un candidato presidente europeista non ha ricevuto i voti di molti parlamentari europeisti?”. La risposta è che il Parlamento europeo presenta ormai due divisioni diverse ma sovrapposte che confondono la vista: alla tradizionale divisione fra destra e sinistra si aggiunge ora quella fra europeisti e sovranisti. La von der Leyen è un’europeista conservatrice che ha ricevuto i voti di destra di sovranisti polacchi, ungheresi e italiani e ha avuto i voti della sinistra italiana senza avere quelli dei socialdemocratici tedeschi. La democrazia in generale e quella europea in particolare sono fenomeni complessi perfino per i politologi. Le “masse” scolarizzate male e con gli smartphone nella testa, è facile che si distraggano e si confondano. Succede anche a me, che quanto a tele-informatica sono a dieta stretta e traffico solo in carta stampata. Bisognerebbe far leggere Simone Weil ai parlamentari e ai presidenti europei? C’è qualcuno che riesca a immaginare una cosa simile?

 

A questo punto sento il bisogno di un intellettuale e scrittore che mi aiuti a mediare fra giornalisti e filosofi. Allora riprendo in mano un opuscolo del tedesco Hans Magnus Enzensberger uscito da Einaudi nel 2013, “Il mostro buono di Bruxelles, ovvero l’Europa sotto tutela”, in cui leggo queste righe: “L’Ue non domina attraverso il comando, ma attraverso le procedure (…) non si dà il compito di opprimere i suoi cittadini, bensì di omogeneizzare, possibilmente in modo tacito, le condizioni di vita sul continente. Qui non si costruisce una nuova prigione per il popolo, ma un riformatorio che provveda al rigoroso controllo dei suoi protetti. L’ideale è che la vita dei suoi pupilli venga regolamentata a livello centrale e standardizzata da un regolamento interno ben articolato in numerosi paragrafi, che va dalla normativa degli affitti alla definizione di una sana dieta quotidiana. La rieducazione di 500 milioni di persone è comunque una fatica erculea, con la quale si sono sfiancati vari e opposti regimi. E non è detto che i nostri attuali tutori siano all’altezza”.

 

Che cosa sono i sovranismi e i populismi, se non prevedibili reazioni di rigetto a questa tutela? La realtà è sempre piuttosto sorprendente, benché sia sempre governata da rapporti di causa ed effetto.

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