Marcello Maloberti, “All'incirca alla Caviglia”, 2002, performance (courtesy the artist and Galleria Raffaella Cortese, Milano)

Nel nome della rosa

Corrado Beldì

Dieci anni a Parma a vendere i fiori dell’amore (degli altri) e infine permettersi un matrimonio in stile Bollywood. Reportage di un invitato, scapolo incallito, dal Punjab

Lettere, regali, dolcezze, ogni giorno una sorpresa e comunque non basta mai, corteggiare una ragazza è una lotta senza tregua, ti distrai un attimo e la presa si allenta, anche il tono si raffredda e allora non sai più che fare. A quel punto non restano che i fiori, è l’ultima spiaggia e di solito funziona, perché un gran mazzo di rose rosse colpisce sempre al cuore, soprattutto se sono tante e di prima qualità. So bene come scegliere quelle buone, in questi anni ci ho speso un patrimonio e si direbbe una strategia perfetta, se non fosse che qualcosa ancora mi sfugge, un dettaglio che non riesco a capire, altrimenti alla mia età non sarei certo scapolo e senza figli. Ci penso ogni volta che comprare Singh, il mio amico venditore di rose, viene dal Punjab e ogni sera a Parma fa il giro dei ristoranti e io gli do sempre qualche soldo, d’inverno si presenta con un berretto di lana come quelli che portava Ingemar Stenmark, perfetto per fare lo slalom tra i tavoli. Ha un sorriso che non nasconde nulla, è misurato e gentile e infatti vende più dei suoi colleghi, duemila rose al mese, quasi trentamila in un anno, mezzo milione da quando è in Italia e tutto ad aliquota zero e così Singh si è preso il permesso di soggiorno e avrà presto il passaporto e forse voterà per Matteo Salvini, perché se altri arrivano a vendere le rose al posto suo allora saranno guai, è un buon lavoro e gli ha dato abbastanza per potersi sposare.

 

Regalare rose si direbbe una strategia perfetta, se non fosse che qualcosa ancora mi sfugge, altrimenti non sarei ancora scapolo

Matrimonio combinato. L’unico possibile. Ne parliamo da tempo e alla fine mi ha invitato, mi ha allungato un cartoncino scritto con la penna blu, si direbbe client care ma c’è qualcosa di più, quando ho preso il biglietto aereo per l’India il nome della sposa non si sapeva ancora, le trattative andavano per le lunghe ma poi finalmente le famiglie hanno trovato un accordo e Singh ha scelto Pawan. Mi ha mandato un whatsapp con la sua foto, ha un’aria così carina e muoio dalla voglia di conoscerla mentre corro su un tuk-tuk a poche miglia dal confine col Pakistan, col cellulare ormai scarico, alla ricerca di una specie di albergo che si è nascosto davvero bene nella notte buia di Amritsar.

   

Sono in giro da due settimane, zaino in spalla e un’enorme scatola di biscotti di Novara, è un pensiero per la mamma di Singh, sono i più leggeri al mondo e perfetti per un lungo viaggio. Un passaggio al Gate of India, le meraviglie di Colaba e un giro a controllare se i banconi della mia guida ai cocktail bar di Bombay ci sono ancora, il drink migliore di tutti stavolta è a casa di Bijoy Jain, vince premi di architettura a raffica e fa un fantastico masala tea o forse è tutto merito del suo patio fiorito. Sta aprendo Studio Mumbai anche a Milano e chissà se riuscirà a portare da noi la sua idea di abbandonare il cemento e costruire solo con quel che trovi sul posto, i sassi, gli alberi e l’argilla che sta sotto il terreno, la mia casa è stata fatta un po’ così ma li c’era la fornace di famiglia e nessuno di noi oggi i mattoni saprebbe farseli a mano. Mi sono quasi offeso quando ha iniziato, davanti a tutti, a parlar male del cemento, il mio unico grande amore, il mio lavoro, la mia passione, però alla fine un punto d’incontro lo abbiamo trovato. Anche per lui “restaurare un calcestruzzo è meglio che demolirlo” e ci mancherebbe altro, la cura dei muri, dei pilastri e dei solai è il mio progetto per l’anno che viene. Rinforzo strutturale. Architettura e degrado. Non per niente sono passato da Ellora, Ajanta, Mandu, Orchha, Agra, Delhi, Chandigarh e dunque per strade impervie, tra campi di riso, cotone, frumento, mango, con tanta polvere e su qualunque mezzo pur di arrivare in tempo al matrimonio, auto, moto, camion, bicicletta e pure a piedi e sugli autobus di linea che nel Madhya Pradesh hanno tutti sulla fiancata la pubblicità di uno shampoo che garantisce una tintura perfetta. Nel mio caso posso tranquillamente farne a meno, sono già popolare così, mi fermano a ogni metro e mi chiedono un selfie dopo l’altro e non posso farci niente, sono il sosia di Aamir Khan che a Bollywood è una vera star e infatti l’uomo del tuk-tuk mi fa uno strano sorriso.

 

Singh avrà un matrimonio combinato. Quando ho preso il biglietto per l’India il nome della sposa ancora non si sapeva

Ha una lunga barba bianca, il turbante d’ordinanza e alla cintola ben in vista un kirpan, il micidiale pugnale che i sikh indossano anche per dormire, temo il peggio quando s’infila in una strada laterale, non c’è nemmeno un lampione e non vorrei finire assassinato come Indira Gandhi, di bruciare in una pira proprio non mi va. Quel giorno Peter Ustinov la stava aspettando per farle un’intervista, era a pochi metri di distanza e dallo choc si era scolato una bottiglia di whisky mentre in strada da queste parti si festeggiava, era una vendetta meditata dai sikh per l’orrenda strage delle teste di cuoio indiane nel Tempio d’oro di Amritsar.

  

   

Vado a vederlo alle prime luci dell’alba, è il luogo sacro per i discepoli del Guru Nanak, arrivano a migliaia ogni giorno da tutto il Punjab, è un miraggio al centro di un grande specchio d’acqua, marmo bianco e pietre dure e tutto ricoperto di foglia d’oro. All’interno i sacerdoti leggono senza sosta i versi del libro sacro, sono microfonati alla perfezione e si accompagnano con tamburi e organetti e c’è un effetto surround che arriva a ogni angolo del complesso, è quasi ipnotico, quasi vorrei immergermi anch’io nella grande piscina ma a quest’ora si gela e già faccio fatica a camminare a piedi nudi sul sasso freddo. Se proprio devo scegliere una nuova religione, mi butterei più volentieri sul culto del Principe Filippo, almeno a Vanuatu c’è un clima tropicale e si prega sulla spiaggia all’ombra di una palma e sempre con un drink in mano. Certo questi sikh fanno di tutto per convincermi, vengo mezzo trascinato alla mensa dei pellegrini, si mangia per terra e con le mani, scodellano da grandi secchi una zuppa squisita e tirano il chapati come un freesby e per fortuna ho i riflessi pronti, lo acchiappo al volo e mi sparo una gran scarpetta sul fondo della ciotola. Finisco in bellezza con un dolcetto al latte, me lo regala al mercato un ragazzino che vende dei bellissimi aquiloni colorati, sono la prova che qui c’è ancora spazio per sognare e chissà se Pawan nel cuore della notte si era mai immaginata tra le braccia di Singh, quando si sono incontrati a casa dei futuri suoceri, per non più di cinque minuti, il contratto di matrimonio era già stato scritto. “Hai qualcosa in contrario?”. Difficile a quel punto tirarsi indietro, nel mio caso credo che sarei sposato almeno da vent’anni, dopo la laurea i miei genitori mi avrebbero appioppato l’erede di un qualche tessitore del biellese e così mi sarei trovato con una fabbrica da chiudere e una moglie depressa e gli operai coi cartelli in piazza. Meglio allora la figlia di un notaio di Milano, con tanto di messa in Sant’Ambrogio e ricevimento al Giardino e a mezzanotte un bicchiere al Bar Basso per gli amici.

 

Lo sposo è irriconoscibile, se entrasse così nei ristoranti di Parma lascerebbe tutti senza fiato, tunica ricamata d’oro e turbante blu

Chissà se il padre di Pawan nel contratto ha voluto scrivere anche i dettagli del catering, appena arrivo davanti al tempio mi accolgono con mandorle e aranciata e un ballo tradizionale, canti e percussioni che servono da richiamo per gli abitanti del villaggio mentre un drone e tre fotografi riprendono ogni dettaglio. Singh ci ha messo dieci anni di risparmi, vorrai mica perderti un frame del lieto evento, come quando suo padre mi accoglie sul sagrato, ha lo stesso sorriso del figlio e gli occhi buoni, li si potrebbe confondere se non fosse per la barba nera e il turbante rosso. Per entrare in effetti ci si deve coprire il capo e per fortuna si avvicina il cugino e mi allunga una bandana con le faccine di Che Guevara. L’hasta siempre è arrivato pure qui ma almeno il colore è in tinta col mio papillon. Lo annodo come posso mi metto in fila dietro agli altri e m’inchino di fronte al libro che il sacerdote arieggia con un grande pennello arancione. Non c’è una sedia e ci tocca stare tutti in posizione yoga, dopo due minuti non sento più le gambe, ci vorrebbe una distrazione ed ecco Singh che compare sulla soglia, è davvero irriconoscibile, se entrasse così nei ristoranti di Parma lascerebbe tutti senza fiato, ha la tunica ricamata d’oro e un turbante blu e il pugnale tempestato di gemme ed ecco Pawan che lo segue, è proprio come nella foto, guardano il sacerdote e pronunciano una serie di formule incomprensibili, poi si mettono a girare insieme attorno al libro, lei lo tiene per un capo del vestito, al quarto giro si scambiano gli anelli e una sciarpa arancione e sono sposi. Allora mi tornano in mente quelle sere a Parma in cui Singh raccontava il suo sogno di sposarsi e quanti euro gli ho allungato negli anni sperando che presto trovasse la ragazza giusta. Non faccio in tempo a mettermi a piangere perché parte una mitragliata di fotografie da red carpet e allora mi tuffo dietro una colonna per non rovinare la distesa dei turbanti col mio Che. Non mi basta a evitare l’ostia, una polpetta di farina, zucchero e burro, consistenza terra umida, il sacerdote la fa su con le dita da un pastone e me la piazza in mano. Non ho scelta, è calda e dolciastra, sa di marzapane e cannella, una vera delizia. Il vero sballo però è l’auto degli sposi, un’Audi bianca ricoperta di rose rosse, sono tutte attaccate, una ad una, col nastro adesivo, cofano e fiancate, è la nemesi di Singh e del suo lavoro, una cosa così la vedrei bene alla Biennale di Venezia, potrebbe essere un’opera di Marcelo Maloberti e invece è un’auto vera e infatti Singh apre la portiera e si mette al volante e parte a tutta birra e non mi resta che infilarmi con suo padre e altri cinque in una vecchia Tata arrugginita che cerca di restargli dietro.

 

Uomini fanno volare aquiloni durante il festival Lohri ad Amritsar nel gennaio 2019 (foto LaPresse)


   

Tutti gli altri ci attendono al banchetto, un prato con gazebo, tavoli, organze e velluti circondato da un lungo buffet e ovviamente da vasi di rose rosse. Si direbbe un raduno di partito e invece sono tutti invitati, non conosco un parmigiano più generoso di Singh, dieci anni a vender rose per offrire a cinquecento persone un banchetto infinito di kadai paneer, chana masala e chicken kadai e gran bicchieri di whisky con ghiaccio, per ora mi butto sul succo d’arancia e sui mitici pani puri, il gnocco fritto indiano che andrebbe bene col culatello e pure coi gustosi spiedini di pollo, grigliati sullo sterco di vacca. Più naturale di così si muore, in effetti come animale domestico la vacca non è male, dà latte ogni giorno, non abbaia, se ne sta tutto il tempo per i fatti suoi e con lo sterco ci accendi il caminetto, mentre invece col barboncino di mia mamma la vedo dura. Il cugino di Singh preferisce i bocconcini impanati, se ne spara mezza teglia in un minuto e ha ragione, i chicken nuggets non li ha mica inventati McDonald’s, si facevano qui molto prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America. Anche lui ha attraversato l’oceano e adesso lavora a Birmingham nel ramo del calcestruzzo, fondazioni, ponti, marciapiedi, una vita col tubo a gettar cemento, insomma un nemico di Bijoy Jain, parla senza sosta e intanto tracanna whisky come se non ci fosse un domani. Vorrei seguirlo ma non riesco proprio, devo concentrarmi sull’assalto dei camerieri nepalesi, portano piatti a ondate e il vero gioco è respingerli, se ti distrai un secondo ti ritrovi mezzo buffet sul tavolo, è una battaglia dura e l’unica salvezza, a un certo punto, è fuggire per andare a ballare.

  

Faccio un giro in pista con Pawan mentre piovono petali di rose rosse e banconote da dieci rupie, sembra la festa di Paperon de’ Paperoni

Il dance floor sembra una scultura di Angela Bulloch, un otto per otto di quadrati colorati ma a dimenarsi sono almeno in cento e vengo trascinato nel vortice. Non sono certo impeccabile nei passi laterali ma non importa, il dj è indiavolato, è un trionfo di ritmi punjabi, “Taki Taki Remix”, “Honey Singh”, “Khala Sigma” e altri grandi successi locali, tre tamburi e due ballerini a supporto, a un certo punto mette “Volare” in salsa indiana e si scatena un turbine di danze senza fine. Arrivano anche i lenti, non si balla in coppia ma tutti appiccicati e alla fine mi mettono pure il turbante, lo sognavo dai tempi di Sandokan e ci vogliono almeno venti minuti, il nodo alla cravatta è un gioco da ragazzi a confronto ma quando torno in pista sono circondato dagli smartphone ed è normale, quando mai ti capita di ballare con Aamir Khan? Faccio un giro in pista con Pawan mentre piovono petali di rose rosse e banconote da dieci rupie, saranno venti euro in totale ma sembra la festa di Paperon de’ Paperoni, volano bigliettoni ovunque e tutti hanno la falsa impressione di essere ricchissimi. Anche noi potremmo vivere questa illusione in caso di uscita dall’Euro. L’importante è non badare alla realtà, sul maxischermo proiettano un video con gli sposi ed è roba da antologia, la barca, il lago, i volteggi in un paesaggio da favola, la musica sempre più ritmata, manco fosse un videoclip di Sfera Ebbasta, è una specie di miraggio come la tavola imbandita che compare alle mie spalle, fino a poco fa c’era un prato, prendiamo posto e i nepalesi si gettano a servire la cena come furie, con gli sposi a capotavola e tutti ad abboffarci di nuovo con riso e chicken tikka e poi un fantastico gelato di crema con caramello e uva passa, mangio quattro ciotole di fila e ormai sono sul punto di esplodere, roba da ritornare a piedi fino a Milano.

     

Piuttosto devo trovarmi un passaggio per tornare in albergo, la festa è finita e Singh ha una certa fretta di portarsi a casa Pawan e si capisce, è la sua prima notte di nozze e chissà quante gioie lo stanno per attendere. La luna di miele durerà giusto tre mesi, poi Singh tornerà a vivere a Parma mentre Pawan resterà qui, a casa dei suoceri e l’Italia per ora la vedrà su Skype. La vita da scapolo di Singh non è ancora finita e nemmeno la mia, non a caso mi ritrovo solo come un cane in un piazzale deserto, sono spariti pure i nepalesi e si sta facendo buio, seguo un sentiero e cammino verso i suoni dei clacson. Al primo incrocio salgo su un tuk-tuk. Il tramonto su Amritsar è dorato, proprio come il tempio dei sikh, siamo in cinque su un sedile più due neonati e una capretta, il motore fa fatica ma l’importante è arrivare a casa, come gli sposi nella macchina coperta di rose e speriamo che il mio amico torni presto a Parma, altrimenti come faccio la sera al ristorante, niente Singh e niente rose rosse e dunque niente fidanzate e insomma nessuna speranza che anch’io, un giorno vicino o lontano, mi possa finalmente sposare.

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