A ricostruire per la prima volta la storia degli adepti del guru indiano Bhagwan Shree Rajneesh è un documentario appena uscito su Netflix, “Wild Wild Country”

Guru, para-guru e democrazia. Il fanatismo religioso spiegato da Osho

Giulia Pompili

Un documentario di Netflix e il sarin di Tokyo

Roma. Esattamente 23 anni fa, il 20 marzo del 1995, intorno alle 7 e 50 del mattino, il primo attentato terroristico perpetrato con il gas sarin cambiava per sempre la nostra percezione del radicalismo religioso. A Tokyo, durante l’ora di punta, un attacco coordinato uccideva 12 persone e ne mandava in ospedale più di mille. Gli uomini del commando erano dieci: cinque di loro avevano portato il sarin in alcuni sacchetti di plastica forati, li avevano lasciati nelle stazioni più frequentate, e mentre il gas letale si disperdeva erano scappati fuori, nelle rispettive cinque auto pronte ad allontanarli dal veleno. Non si è mai capito quale fosse il reale obiettivo degli attentatori, ma tutti e dieci facevano parte della setta Aum Shinrikyoō, fondata nel 1980 da Shoko Asahara, che definiva se stesso il nuovo Gesù Cristo illuminato. Nove mesi prima la setta aveva fatto un attacco simile nella città di Matsumoto, nella prefettura di Nagano, ma in quel caso le motivazioni c’erano, ed erano molto più pragmatiche di quanto uno si aspetterebbe da una setta per la “salvazione”. Il sarin, caricato in un camioncino, avrebbe dovuto uccidere i giudici che stavano indagando sull’organizzazione, dopo la denuncia di alcuni abitanti che si opponevano all’acquisto da parte della Aum Shinrikyō di un terreno e di alcuni immobili. Quel giorno morirono otto persone. Ieri, durante una conferenza stampa a Tokyo, la Società giapponese per la prevenzione dei culti ha chiesto al governo di Tokyo di non procedere alla pena capitale nei confronti di Shoko Asahara, che è in carcere sin dal 1995 e si trova oggi nel braccio della morte: secondo i ricercatori, il guru va studiato, così come le dinamiche delle sette. E poi c’è un altro pericolo, che ha spiegato l’avvocato delle vittime Taro Takimoto all’Afp: pur avendo cambiato nome in Aleph, la setta è ancora viva, e parliamo di migliaia di adepti tra il Giappone e la Russia. Per i membri Shoko Asahara è “più di un dio, gli ordini di Asahara provengono dall’universo stesso”, ha detto Takimoto, chiedendo al governo di evitare di trasformare il guru in un martire.

   

La storia degli Aum Shinrikyō ricorda, per dinamiche e conseguenze, quella del controverso gruppo dedito al Rajneeshismo – la setta “degli arancioni”. A ricostruire per la prima volta la storia degli adepti del guru indiano Bhagwan Shree Rajneesh, con dettagli e testimonianze dirette, è un documentario appena uscito su Netflix, “Wild Wild Country”, diretto da Maclain e Chapman Way e prodotto da Juliana Lembi. Siamo a metà degli anni Ottanta, e Bhagwan Shree Rajneesh – altrimenti conosciuto con il popolare nome di Osho, sì, quello de “Le frasi di Osho”, però l’originale – è una specie di rockstar. Parla un inglese semplice e comprensibile, ha una personalità magnetica, e attraverso un sofisticato equilibrio tra misticismo orientale e pragmatismo capitalista occidentale attira decine di migliaia di adepti in tutto il mondo. Osteggiato dall’India ultrainduista e guardato con sospetto dal governo di Indira Gandhi, la setta del santone indiano decide di lasciare il quartier generale di Pune e di trasferirsi altrove.

 

E’ qui che compare la figura di Ma Anand Sheela, che nel 1981 diventa segretaria e portavoce di Osho e decide di portare la sede della “comunità” ad Antelope, un minuscolo centro abitato dell’Oregon. Sotto la guida di Sheela gli affari vanno alla grande, la comunità, grazie al lavoro gratuito degli adepti, cresce enormemente: non è più solo un centro di culto ma una vera città. E’ a quel punto che gli abitanti della città iniziano a vedersi sempre più allontanati, emarginati, perché nel frattempo i membri della ricchissima setta si infilano nel consiglio comunale, si dotano di un loro servizio di polizia, si armano perché “si sentono minacciati” e non accettati. Il documentario si muove sul filo di una domanda che ancora oggi, seppure siamo più vaccinati per certi culti e riusciamo a distinguere il lavaggio del cervello dalla fede, può essere d’aiuto: si può convivere pacificamente con l’estremismo religioso in un luogo democratico? La storia ci insegna che il fanatismo, da qualunque lato lo si guardi, è sempre pericoloso.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.