Il People's Vote è ancora in piazza

Manifestazioni davanti a Westminster mentre si vota per il deal della May sulla Brexit. Gli organizzatori ci raccontano le loro attese

Luciana Grosso

Euforica. Non c’è altro modo per descrivere l’aria che si respira dalle parti del comitato per il People’s Vote, il gruppo che, lo scorso ottobre, ha organizzato la marcia monstre per le vie di Londra e che, da mesi, chiede che si voti di nuovo: non più sull’Europa, su cui, piaccia o no, si è già detto, ma sul deal che ne governerà l’addio.

La serena allegria e la soddisfatta tranquillità con cui, da People’s vote, rispondono alle domande dei cronisti, stona con il resto del clima pesantissimo che si respira a Londra, dentro e fuori Westminster.

 

In Parlamento si giocano i destini non solo di Theresa May ma anche dell’intera faccenda Brexit. Lo sanno tutti: lo sa la premier, che pallida, stanca e invecchiata di dieci anni in due mesi, pronuncia il suo tesissimo discorso ai comuni: “L’accordo – dice – non è perfetto, ma quando i libri di storia ne parleranno si chiederanno se quest’aula ha salvaguardato l’economia, la sicurezza e l’unione del Regno, o se, invece, abbiamo deluso il popolo britannico”. Parole accorate e gravi difronte alle quali, però, l’aula fa spallucce, presa in altre trattative. Lo sanno gli inglesi, specie i londinesi, atterriti dall’idea di una Brexit no deal e che da ore stazionano davanti al Parlamento; lo sanno soprattutto i remainers che, inevitabile, si sfregano le mani e guardano i leavers bisticciare e incartarsi da soli. C’è da capirli, in fondo: sono due anni che aspettano sul fiume e sono due anni che, per aspettare meglio, hanno dismesso i panni aulenti di “élite europeista” (parole che già di questi tempi sono garanzia di catastrofe elettorale) e hanno preso a vestire quelli meno respingenti di “difensori della democrazia e della possibilità di scelta del popolo inglese”. E’ vero solo a metà, ma del resto non fanno molto per nasconderlo.

 

Non abbiamo niente né contro Theresa May, né contro Brexit – dice al Foglio Thomas Cole, portavoce di People’s Vote – la nostra è una questione di principio e di difesa della democrazia. Il piano presentato da May, che pure è forse la miglior via di uscita possibile, non tiene fede a nessuna delle promesse fatte nella campagna del Leave del 2016. Chi ha votato Brexit in quell’occasione non trova soddisfatta nessuna delle sue richieste e aspirazioni e nessuna delle promesse a cui aveva creduto”. Il che, va detto, è vero. Molti dei cavalli di battaglia di Boris Johnson e Nigel Farage si sono sciolti come neve al sole: la questione dei soldi stornati dall’Ue per andare alla sanità si è rivelata una bufala, e lo stesso è stato per stretta sull’immigrazione, visto che chi è già nel Regno Unito ci rimarrà e che, inevitabilmente, altri arriveranno. Anche l’idea di stringere altri e nuovi accordi politici e commerciali si è rivelata di fatto impossibile da mantenere e per di più, cosa che nel 2016 nessuno aveva previsto, il Regno si ritrova spaccato in due per la questione del confine irlandese.

 

“Nessuno ai tempi della campagna del 2016 aveva detto queste cose. Nessuno ha votato per queste cose. Ora che sono sul piatto, è necessario rivotare”, continua Cole,  come se il voto del 2016 fosse stato un voto teorico, una specie di mandato a trattare con l’Europa le condizioni di un’ipotetica uscita. “L'accordo portato da May propone delle condizioni peggiorative per il commercio e l'economia rispetto a quelle che abbiamo ora e che continueremmo ad avere restando in Ue e, per ironia della sorte, non ci svincolano del tutto da Bruxelles. Inoltre, la bozza di accordo, che pure concilia molti aspetti della vicenda, non può mantenere le promesse del 2016 perché quelle promesse erano contraddittorie e irrealizzabili e nessuna forma di Brexit può soddisfarle”.

 

Così nel gennaio 2019, l’Inghilterra che nel 2016 iniziò a pianificare (o a sognare, direbbe qualcuno) l’addio all’Europa rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche, invischiata in una vicenda che non può, in nessun caso, finire bene. A meno di un vero ed efficace accordo con l’Ue, le strade possibili sono tre: il no deal, che appare terrificante e (almeno per ora) improbabile; una (per ora fantapolitica) cancellazione ex abrupto dell’intero processo di Brexit e amici come prima (le sirene di Bruxelles hanno detto che, volendo, si può fare), oppure l’ipotesi di un secondo voto. “I sondaggi - dicono ancora da Peole’s Vote, sforzandosi di non gongolare troppo - mostrano che questa ipotesi è la più gradita agli inglesi e che il risultato sarebbe diverso da quello del 2016”.  Ma neppure in questo caso la faccenda sarebbe semplice: i leavers, c'è da giurarci,  farebbero una campagna feroce e divisiva oltre ogni immaginazione e buona parte di quelli che hanno votato Brexit, in caso di sconfitta, si sentirebbero defraudati, presi in giro e scippati. Il paese ne uscirebbe a pezzi. Anzi: ne uscirà a pezzi in ogni caso. 

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