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Taiwan, un'isola di resistenza

Giulia Pompili

Tra carri armati e orsacchiotti, Taiwan continua a rivendicare e festeggiare la sua indipendenza. Ma uscire dalla morsa diplomatica di Pechino è sempre più complicato

Taipei. L’aria fuori è quella tipica della stagione delle piogge: il cielo grigio, la gente raffreddata. Jonathan ha ventuno anni, studia Lingua e Letteratura inglese, è così elegante nel suo completo – nero come i suoi capelli marmorizzati – che la pioggia non lo bagna. Ha trascorso gli ultimi venti minuti a scortare una giornalista italiana in cerca di un luogo per fumare una sigaretta: “Non è che vogliamo controllarvi, è una gentilezza, fa parte dell’ospitalità”. La parata della Giornata nazionale della Repubblica di Cina, meglio conosciuta come giornata del Doppio Dieci (10-10 Double Tenth) è appena iniziata. E’ la giornata dell’Indipendenza di Taiwan: il 10 ottobre del 1911 segna l’inizio della Rivolta di Wuchang, che portò qualche mese dopo all’abdicazione dell’imperatore Pu Yi e al crollo della dinastia Qing, quindi alla successiva fondazione della Repubblica di Cina guidata da Sun Yat-sen. “Per un anno i club delle varie università di Taiwan si sfidano per poter lavorare come vip escort a questo evento. Per noi è un grande onore”, ci spiega Jonathan in un inglese preciso e senza inflessioni. E quali sarebbero le prove da superare? “Beh, quella di lingua naturalmente, ma anche diplomazia e portamento, conoscenza dei protocolli”. Ma non lo fate gratis: “No, siamo pagati. Lavoriamo da questa mattina all’alba, e quando sarà finita la parata sarà finito anche il nostro lavoro. Ma prestare servizio al Double Tenth è anche un buon modo per fare esperienza, e avere piacevoli conversazioni, come questa”, dice galante, dimostrando di aver meritato il suo posto.

 

E’ il giorno del Double Tenth, il dieci ottobre, ovvero la festa dell’indipendenza di Taiwan dalla Cina continentale

Il ricevimento dopo la parata è il momento clou della festa del Doppio Dieci. Perché qui tutto è un simbolo degli sforzi di Taiwan

E’ un momento molto complicato per Taiwan, quella che un tempo i portoghesi chiamavano l’isola di Formosa, da sempre al centro della guerra di posizione tra America e Cina in Asia. Washington è l’unica protezione reale per l’indipendenza di Taiwan, isola autogovernata che la Cina considera parte del suo territorio. Oggi lo scontro è ancora più evidente per via della politica della Casa Bianca in estremo oriente, che è spesso considerata dagli analisti incoerente e priva di una strategia sul lungo termine, mentre invece l’influenza di Pechino sul resto del mondo è sempre più forte. E’ grazie a quell’influenza che la Repubblica di Cina – il nome formale di Taiwan – negli ultimi anni ha perso il sostegno diplomatico di molti dei paesi che tradizionalmente la riconoscevano, e a oggi sono soltanto diciassette gli stati che riconoscono il governo di Taipei. Perfino lo stato Vaticano, che da anni, e soprattutto con Papa Francesco, cerca un accordo sulle nomine episcopali con la Cina, negli ultimi mesi avrebbe accelerato il processo di disgelo con Pechino e quindi lasciato un po’ nell’angolo la tradizionale amicizia con Taiwan (dove i cattolici sono circa 300 mila, il 2 per cento della popolazione). Il Vaticano è l’ultimo stato in Europa a riconoscere il governo di Taipei come indipendente, ma ultimamente si muove in equilibrio per finalizzare l’accordo con la Cina. E’ per questo che dopo la visita a Roma del vicepresidente di Taiwan, Chen Chien-jen, un paio di settimane fa, e il suo invito formale a visitare l’isola – il secondo – il Vaticano ha fatto sapere che “non è allo studio” alcun viaggio pastorale del Papa.

 

Sin dalle prime ore dell’alba del 10 ottobre, tutte le strade del distretto di Zhongzheng – generalmente un fiume di scooter che trasportano una, due, tre persone alla volta, e del resto il motorino è il mezzo di trasporto preferito dei taiwanesi nonché causa principale dell’inquinamento acustico e ambientale – sono chiuse al traffico. Imponenti misure di sicurezza e check point rallentano la corsa delle delegazioni invitate al Palazzo presidenziale – che Pechino chiama “Palazzo del leader di Taiwan” – prima della parata celebrativa. Un tripudio di fiori e bandiere accoglie le delegazioni straniere, nell’edificio che un tempo, dopo la Seconda guerra mondiale, si chiamava “Chieh Shou Hall” (“Chieh Shou” significa “lunga vita al presidente Chiang Kai-shek” in cinese) – trasformato semplicemente in “Palazzo presidenziale” nel 2006, quando i taiwanesi hanno iniziato a riconsiderare la figura di Chiang Kai-shek – padre della patria, sì, ma pure leader autoritario. Chiang preparò Taiwan al boom tecnologico e al passaggio a un’economia davvero aperta e democratica, ma pur sempre legata al colonialismo giapponese e all’influenza cinese, come racconta nella graphic novel “I miei anni ’80 a Taiwan” l’illustratore e regista Sean Chuang (Add editore, 192 pp., 18 euro).

 

Per un paio di ore, la hall presidenziale è una processione di invitati stranieri che vengono presentati, uno per uno, a Tsai Ing-wen. E’ la sessantaduenne presidente di Taiwan, che attende ognuno in un istituzionale completo pastello tendendo il braccio, dissimulando la noia delle lunghe sessioni di strette di mano. Non soltanto è la prima donna a essere stata eletta presidente, nel 2016, ma è anche il primo leader non sposato, quindi accanto a lei in certe occasioni c’è solo il vicepresidente. Tsai è la leader del Partito democratico di Taiwan, e già nel 2012 aveva provato a battere il candidato del Kuomintang, il tradizionale partito conservatore e anticomunista, senza riuscirci. Da sempre ribadisce l’importanza di una indipendenza formale di Taipei, e finì sui giornali internazionali all’inizio di dicembre del 2016, quando Donald Trump, neoeletto alla Casa Bianca, ruppe ogni protocollo parlandole al telefono. La posizione politica di Tsai, pur rimanendo ferma sull’indipendenza di Taiwan, è quella di mantenere lo status quo a tutti i costi: quindi continuare la collaborazione economica con la Cina – che c’è, ed è robusta, nonostante gli affari politici – ma privilegiare gli alleati come l’America e il Giappone. Per questo sostanziale immobilismo, anche nel dialogo o nello scontro con Pechino, Tsai è stata spesso accusata da entrambe le parti. La scorsa settimana a Taipei oltre centomila persone (30 mila per la polizia) sono scese in piazza per chiedere un referendum sull’indipendenza di Taiwan. Una manifestazione “organizzata sabato dalla Formosa Alliance, una nuova realtà politica guidata dai due ex presidenti indipendentisti in pensione Mr Lee Teng-hui e Chen Shui-bian. Vero anatema per Pechino che considera un divorzio dell’isola de jure inaccettabile”, scrive il collettivo di affari asiatici China-Files. “Mentre il partito di governo ha preso le distanze dalle proteste, la mobilitazione – la più numerosa degli ultimi 20 anni – evidenzia una crescente polarizzazione all’interno della società taiwanese, insofferente nei confronti della remissività della presidente Tsai Ing-wen davanti alla strategia di isolamento messa in atto da Pechino sul proscenio internazionale. Difficilmente Tsai approverà la riforma costituzionale necessaria per poter procedere con il referendum. Ma la massiccia partecipazione popolare è di per sé un segnale che la leadership non può permettersi di ignorare”. Anche secondo il viceministro del Consiglio per gli affari continentali, Chiu Chui-cheng, la convinzione del governo di Taipei è quella di “mantenere buone relazioni con il continente continuando a proteggere la democrazia. Ma non è facile mantenere questo status quo, visto che in Asia tutto è molto dinamico, e soprattutto non può farlo da sola Taiwan. I taiwanesi credono nella democrazia, anche quelli, moltissimi, più di ottantamila, che lavorano nella Cina continentale”. Taiwan è una delle isole del Pacifico più minacciata militarmente, con una retorica che ricorda lontanamente quella della penisola coreana, ma il viceministro Chiu Chui-cheng ci tiene a mantenere le distanze con quel “modello”: è vero che cerchiamo una soluzione che sia condivisa da entrambe le parti, ma la Corea del nord fa parte delle Nazioni Unite, mentre Taiwan è esclusa dai consessi internazionali e all’ultima assemblea generale dell’Onu – che riconosce la One China Policy – i suoi giornalisti non sono stati nemmeno accreditati.

 

Fuori, nel frattempo, la parata ha inizio con qualche show militare, ma è soltanto con l’arrivo della presidente che si entra nel vivo della comunicazione mediatica. Tsai prende la parola dopo l’inno nazionale, fa un discorso di mezz’ora spaccata, che il Global Times – testata considerata organo semiufficiale del Partito comunista cinese – definirà il giorno dopo “senza senso”. “Mentre il mondo intero affronta l’espansione dell’influenza cinese”, ha detto Tsai, “il governo che guido mostrerà al mondo la forza e la resilienza di Taiwan. Il miglior modo di difendere Taiwan è renderla indispensabile e insostituibile nel mondo. La gente di Taiwan non potrà mai accettare dei tentativi di forze esterne di cambiare unilateralmente lo status quo. E la comunità internazionale non approverà mai la violazione dei valori universali. Quindi ancora una volta faccio appello alle autorità di Pechino, in quanto rappresentanti di una potenza responsabile, di avere un ruolo positivo nella regione e nel mondo, invece di essere una fonte di conflitti”. Poi, sulla possibilità che sia invece Taiwan a provocare: “Non agiremo mai in modo da instaurare uno scontro, e nemmeno ci finiremo dentro”, perché “l’escalation dei conflitti o la provocazione di essi fanno solo peggiorare le cose”.

 

Pur essendo la festa d’indipendenza di un paese che non ha ancora riconosciuta la sua indipendenza, anzi, continua a essere abbandonato da altri paesi storicamente alleati, la parata del Double Tenth non è per niente minacciosa. Lo stile è quello americano/giapponese: pupazzi e ballerini, costumi di scena, ogni carro che passa davanti al palco d’onore rappresenta una specialità o una caratteristica di Taiwan, dal cibo alla compagnia di bandiera, China Airlines (da non confondere con Air China, quella di Pechino). Ogni tanto la presidente Tsai si alza in piedi per applaudire i suoi ragazzi che sfilano davanti a un servizio d’ordine composto per lo più da boy scout delle scuole medie. I vip escort come Jonathan distribuiscono bandierine e mantelle impermeabili per la pioggia sulle tribune degli ospiti, mentre il pubblico lentamente cambia colore, man mano che si aprono gli ombrelli, si indossano le tuniche e qualcuno scappa dalla piazza davanti al Palazzo presidenziale. Accanto alla presidente, a parte vari attaché dei servizi consolari di vari paesi e una delegazione americana di medio livello, ad assistere alla parata c’è soltanto il presidente del Paraguay, Mario Abdo Benítez, paese con cui Taiwan continua ad avere un rapporto di cooperazione fruttuosa, anche in campo militare.

 

La scorsa settimana a Taipei oltre centomila persone sono scese in piazza per chiedere al governo un referendum sull’indipendenza

La parata ha inizio con qualche show militare, ma è soltanto con l’arrivo della presidente Tsai che si entra nel vivo della mediaticità

In sostanza, l’unico vero alleato occidentale di Taipei resta l’America. All’inizio di ottobre il vicepresidente americano Mike Pence, in un discorso particolarmente aggressivo, ha attaccato la strategia di Pechino difendendo l’operato del presidente Donald Trump che sta tentando, attraverso la guerra commerciale, di “difendere l’America” dagli “attacchi predatori” cinesi. “In risposta a questo, Pechino ha avviato una campagna globale e coordinata per minare il sostegno al presidente”. Nonostante le parole amichevoli che spesso Trump, nei suoi tweet, rivolge al presidente cinese Xi Jinping, i rapporti tra i due paesi continuano a essere tesi e non c’è solo la guerra commerciale e la tecnologia di mezzo. “Il leader cinese”, ha detto Pence, “nel 2015, dal Rose Garden della Casa Bianca, ha detto che il suo paese non aveva nessuna intenzione di militarizzare il Mar cinese meridionale, ma oggi Pechino ha schierato missili antinavi e antiaerei in un arcipelago di basi militari costruite su isole artificiali. […] La Cina non vuole altro che spingere fuori gli Stati Uniti dal Pacifico occidentale e tentare di impedirci di aiutare i nostri alleati. Ma falliranno”. Sempre in quell’occasione, Pence aveva citato Taiwan più volte, ribadendo che la piccola isola è l’esempio democratico da seguire: “La nostra Amministrazione continua ad adottare la One China Policy, ma la democrazia di Taiwan sembra il miglior percorso per i cinesi”. Secondo Pence, la pressione esercitata da Pechino nei confronti dei paesi che ultimamente hanno dovuto troncare i rapporti diplomatici con Taiwan – vedi l’America latina soprattutto – è una “minaccia per la sicurezza dello stretto di Taiwan”. L’isola è quindi sempre più il terreno di scontro tra Washington e Pechino, e non è un caso se qualche giorno fa, per la seconda volta dall’inizio del 2018, l’incrociatore USS Antietam e il Cacciatorpediniere USS Curtis Wilbur, due navi da guerra piuttosto minacciose, hanno eseguito un transito “di routine” – secondo il comando militare americano nel Pacifico – nello stretto di Taiwan. E’ un modo per dimostrare che l’America tiene alla “libertà di navigazione”, ma anche una provocazione incassata da Pechino. Sull’ultimo numero di Foreign Affairs, Caitlin Talmadge della Georgetown University ha scritto che “una guerra tra i due paesi”, cioè America e Cina, “rimane improbabile, ma la prospettiva di uno scontro militare – che derivi, per esempio, da una campagna cinese contro Taiwan – non sembra più così poco plausibile come una volta. E le probabilità di un simile confronto nucleare sono più alte di quanto la maggior parte dei politici e degli analisti pensano”.

 

Il ricevimento dopo la parata è il momento clou della festa del Doppio Dieci. Perché qui tutto è un simbolo del tentativo di Taiwan di restare a galla nonostante la potenza mediatica di Pechino. Si entra soltanto con invito personale ed esclusivo, e ci chiedono addirittura di non gettare via il cartoncino con il nostro nome, perché è accaduto, in passato, che qualcuno frugasse nella spazzatura per riutilizzare l’accesso l’anno dopo. La Taipei Guest House, di proprietà del ministero degli Esteri di Taipei, costruita all’inizio del Novecento dai giapponesi, è uno spettacolo di luci e sontuosità. I due giardini ospitano leccornie da ogni luogo d’Asia, cucinato espresso da chef internazionali – come dire, se non si può fare diplomazia con le ambasciate, si può sempre fare col cibo. E infatti, quando arriva la presidente Tsai, gli ospiti sono talmente presi da ravioli e tempura che quasi nessuno se ne accorge. Sul palco, nel frattempo, vari gruppi mettono in scena spettacoli, musica tradizionale. L’obiettivo dichiarato della cena è fare, e far fare, pubbliche relazioni. Come in un film di James Bond, le chiacchiere più interessanti si fanno davanti al banco del Kavalan, uno dei migliori whisky del mondo, che si distilla nella contea di Yilan, a nord-est dell’isola di Taiwan.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.