Lo zar Nicola II con Alexei, l’unico figlio maschio nei pressi di San Pietroburgo. In basso, le figlie dello zar già in prigionia, a Ekaterinburg

L'impero interrotto

Micol Flammini

Cento anni dopo, la morte dei Romanov tormenta ancora la Russia. Due libri raccontano la fine della famiglia reale che la storia non ha salvato

Lo zar è morto. L’Unione sovietica anche. E’ viva la Russia con i suoi sogni di conquista, i tormenti della geopolitica e fantasmi del passato. Quando sette di questi fantasmi compiono cento anni, la Russia non sa cosa fare. Ignorarli? Non è consigliabile per un paese ignorare i propri fantasmi. Commemorarli? I fantasmi vengono fuori dal passato, sono la presenza di una storia che continua e infastidisce ma che non si riesce a nascondere. E una nazione non può commemorare qualcosa che vorrebbe nascondere. Ma se i fantasmi si trasformano in santi, allora possono essere onorati. Così i Romanov, i sette fantasmi più ingombrati della storia russa, per la chiesa ortodossa sono diventati dei santi. Il patriarca Kirill in occasione del centenario della loro morte ha organizzato una processione di ventidue chilometri per condurre i fedeli a Ekaterinburg, dove è stata uccisa la famiglia reale. Nel 2000 la chiesa ortodossa ha santificato i Romanov, Nicola II, l’ultimo zar di una famiglia che ha regnato per trecento anni, si è trasformato nel martire di una nazione priva di eroi e piena di spettri. Il Cristo russo che è morto per espiare i peccati di tutta la Russia, secondo la versione dei nazionalisti ortodossi. Con Kirill in testa, oltre centomila tra fedeli e nazionalisti, dal centro della città degli Urali sono andati a onorare i sette martiri, le icone laiche dell’ortodossia, a pregare sul luogo della loro esecuzione, a portare fiori. E’ l’immagine della nuova Russia che adora il fantasma della vecchia Russia, perché se c’è una cosa che la gente non ha mai perdonato ai bolscevichi è di aver tolto alla nazione lo status di impero. Lo stato non può sostituirsi a un impero e per esserci un impero deve esistere un sovrano, un imperatore, uno zar. Che la Russia sia sempre vissuta nel tormento della perdita dell’impero è un dato storico: i russi non hanno mai perdonato a Gorbacev di averli privati dell’Urss, surrogato statalista e burocratizzato del sogno imperiale. Questo sogno è finito perché Nicola II doveva morire, era il simbolo di un mondo che la rivoluzione aveva deciso di distruggere, ma dietro l’esecuzione della famiglia reale, al di là dei misteri che l’hanno avvolta, dei sogni infantili e delle leggende, c’è una vicenda umana che si rifiutava di tenere conto della storia, e una vicenda storica che non ha tenuto conto dell’umanità. Due libri, editi in occasione del centenario dell’uccisione della famiglia reale, partono da questo assunto e intrecciano la storia e la vita della famiglia Romanov, spiegando come sia stata l’inadeguatezza umana a determinare una tragedia storica, e una lucidità storica a portare alla tragedia umana.

 

“The race to save Romanov”, di Helen Rappaport, racconta come reagì il mondo alla fine della famiglia reale russa

“Journal intime de Nicolas II” raccoglie gli scritti dello zar dal dicembre del 1916 fino al giugno di due anni dopo

Nicola II era timido, schivo, cortese fino all’eccesso, impressionabile. Non avrebbe mai dovuto fare lo zar, nota il giornalista Jean-Christophe Buisson nella prefazione di “Journal intime de Nicolas II” che raccoglie gli scritti dello zar dal dicembre del 1916 fino al giugno di due anni dopo. Il sovrano non era adatto a governare, amava leggere, ma non prendere decisioni. Attraverso le decisioni avrebbe potuto prevenire la morte della sua famiglia, ma era quella dote di saper eludere gli eventi, la paura di usare il potere che lo condussero alla notte tra il 16 e il 17 luglio, quando venne ucciso con tutta la sua famiglia. Il giornalista francese raccoglie l’ultima parte del diario di Nicola II, che ricorda gli scritti lasciati da Luigi XVI nei giorni della Rivoluzione.

 

La Russia è in guerra, si prepara alla rivoluzione, e il diario incomincia con le annotazioni dello zar. E’ raffreddato, teme che i suoi figli si ammalino di morbillo, morbosamente chiede quanti gradi ci sono fuori, si preoccupa, ha paura per ciò che mangia, legge Maurice Leblanc, Alexandre Dumas e Turgenev.

 

I diari di Nicola II vennero pubblicati in Francia quasi ottant’anni fa e Buisson ha deciso di ripresentarne l’ultima parte, arricchita di note esplicative che guidano nella comprensione dello scenario storico che fa da sfondo alle angosce, alle giornate uggiose, lontane dal trambusto della rivoluzione. Lo zar annota la sua vita, la quotidianità di un uomo che sta per morire, non lo sa ma lo percepisce, indifeso e pietrificato di fronte al collasso del suo impero. Avrebbe potuto fermare tutto, annota le sue giornate, descrive i dettagli della sua vita famigliare fino a una settimana prima della sua esecuzione. I suoi nemici lo accusano di non essere fedele alla patria perché ha sposato una tedesca, Alexis Darmstadt, la zarina Alessandra, ma come si legge nei suoi diari, Nicola II è germanofobo. E’ un uomo timido e ingenuo, incapace di confrontarsi con le sfide storiche che deve affrontare. C’è una guerra mondiale da combattere, milioni di morti, feriti prigionieri e lui annota la sua ossessione per la temperatura esterna. E’ un uomo disconnesso dal suo tempo, soffre in un’èra piena di disperazione, ma cerca di tenersi lontano riscoprendo la vita domestica, i figli. La sua abdicazione era una resa psicologica di fronte alla catastrofe del suo impero. “A Pietrogrado alcuni giorni fa sono cominciati i disordini. Anche le truppe, purtroppo, hanno cominciato a prendervi parte. E’ una sensazione terribile sentirsi così lontani e ricevere soltanto notizie brutte e frammentarie! – annota nel diario cinque giorni prima dell’abdicazione – Dopo pranzo ho deciso di andare a Carskoe Selo al più presto e sono corso al treno”. Crede che lasciare il trono sia un “atto necessario per salvare la Russia”.

 

Nicola II era timido, schivo, impressionabile, cortese fino all’eccesso. Non avrebbe mai voluto fare lo zar

Che la Russia viva nel tormento della perdita dell’impero è un dato storico. E per esserci un impero deve esserci un imperatore, uno zar

Abdica il 14 marzo del 1917, la data della fine di una dinastia che per lui coincide con la riscoperta di un mondo famigliare vulnerabile, cagionevole e decadente. Il diario, questo viaggio intimo nella quotidianità dello zar è costellato di canzoni patriottiche, di preghiere che testimoniano una religiosità ai limiti con il misticismo. Nicola II dopo l’abdicazione si sente sollevato, vive a Carskoe Selo, fuori Mosca, si riempie di riti quotidiani: tagliare alberi, fare giri in barca. Leggere, leggere, leggere. E’ un lettore accanito ed eclettico, passa da Conan Doyle a Tolstoj, fino a Gaston Leroux. A un certo punto annota che sta leggendo un saggio sull’esercito russo, confessa la fantasia di voler diventare un critico letterario. E’ questo Nicola II, l’uomo che aveva paura della storia. Un aspetto che con tenerezza emerge dai diari raccolti da Buisson è la sfera della paternità. Qualche giorno prima del suo assassinio scrive: “Alexei ha fatto il bagno, il suo ginocchio migliora ma non riesce ancora a piegarlo. Il clima è mite fuori. Dall’esterno nessuna novità”. Il diario finisce nel silenzio, nel mutismo di una Russia che non lo vuole più. Lo hanno portato a Ekaterinburg con tutta la famiglia: la zarina Alessandra, Alexei il figlio emofiliaco e le figlie Olga, Tatiana, Maria e Anastasia. Era uno degli uomini più potenti della terra, a capo di un impero che occupava quasi un sesto delle terre emerse, e di uno dei migliori eserciti di Europa. I diari sono colmi di imbarazzo. Imbarazzo nei confronti della famiglia che sa di aver condannato. Di fronte alla nazione, che sa di non aver saputo governare. Imbarazzo di fronte al potere che è conscio di non saper usare. Quell’uomo, troppo timido e discreto, che viveva nel rifiuto testardo della storia e nel terrore ossessivo del proprio potere non sarebbe mai stato in grado di salvarsi da solo. Si è condannato e la storia non l’ha aiutato.

 

E’ “The race to save Romanov”, la corsa per salvare i Romanov, il libro di una storica britannica, Helen Rappaport, a raccontare come reagì il mondo alla fine della famiglia reale russa. Nel luglio del 1918, mentre l’esercito inglese resisteva agli ultimi mesi una guerra senza fine, il re Giorgio V decretò che la sua corte dovesse vestirsi a lutto per un mese. Nel paese non era morto nessuno di così importante, il conflitto, con terribili conseguenza, si stava risolvendo a favore della Gran Bretagna, ma un sovrano straniero era scomparso. Lo avevano ammesso anche i bolscevichi, Nicola II era stato ucciso, ancora non avevano annunciato l’esecuzione della zarina e dei cinque figli. Il re inglese, cugino dello zar, era soffocato dai sensi di colpa, era morto suo cugino, un sovrano, un’èra e una dinastia. Giorgio V avrebbe potuto fare qualcosa, ma la ragion di stato era troppo forte. Tra l’incenso e i canti slavi, il re e la regina Mary andarono a commemorare la morte di Nicola II nell’unica chiesa ortodossa di Londra. C’è un’unica grande domanda che accompagna il libro di Helen Rappaport: l’Europa avrebbe potuto salvare i Romanov? Sì, sembra dirci la storica. Ma c’era una guerra da vincere, delle alleanze da creare, delle nazioni da salvare e la famiglia reale russa, in un modo o nell’altro, costituiva un ostacolo di fronte a queste finalità storiche.

 

Le famiglie reali di tutta Europa, legate ai Romanov da una fitta rete di legami di sangue, avevano cercato di salvarli. O quantomeno in ogni palazzo reale se ne era discusso. Dopo l’abdicazione dello zar, il re Giorgio V aveva pensato di accogliere la famiglia russa in Gran Bretagna. Nicola II era suo cugino, erano legati anche da un’incredibile somiglianza, ma gli inglesi stavano combattendo una guerra e i loro nemici erano i tedeschi, proprio come la zarina Alessandra. Accogliere a corte una tedesca avrebbe danneggiato la monarchia, i sudditi avrebbero pensato che il re avesse anteposto il sentimento familiare alle questioni di stato e quando arrivò a Londra la comunicazione che il governo russo in mano ai bolscevichi era disposto a collaborare all’evacuazione dei Romanov, Giorgio V prese tempo, nella speranza che la famiglia reale russa potesse trovare un’altra nazione in cui andare in esilio. Anche dalla Germania, il kaiser Guglielmo II si era sentito in dovere di salvare lo zar, era il padrino di Alexei e cugino della zarina. Se la Russia era uscita dalla guerra era per una pace firmata dalla Germania e dai bolscevichi, non dallo zar. Aveva paura che accogliere i Romanov avrebbe gettato la nazione nello stesso caos che aveva stravolto la Russia. Tuttavia, la possibilità di andare in esilio in Germania a Nicola II non piaceva, era stata la Germania a organizzare il ritorno di Lenin e a condannare la sua famiglia. La famiglia reale non aveva legami di parentela con lui, la sua nazione inoltre era entrata in guerra contro i tedeschi e farsi accogliere dal kaiser non era una soluzione che un patriota, come lo zar, avrebbe potuto prendere in considerazione. Ci furono altri tentativi, dissoltisi poi di fronte alle difficoltà storiche: Alfonso di Spagna si era interessato ai Romanov, anche la marchesa Milford Haven, sorella della zarina, aveva pensato di ospitare le principesse sull’isola di Wight, pensava che i bolscevichi avrebbero condannato solo la coppia reale e il figlio maschio. Tutti i sovrani d’Europa erano un’unica famiglia, grande, allargata. Ma la necessità di vincere la guerra prevalse sui legami di sangue, il calcolo storico sull’umanità.

 

I Romanov erano rimasti sospesi, incastrati in una dimensione nella quale non potevano più esistere. Incarnavano la corruzione del vecchio sistema, la decadenza di una classe sociale. Erano diventati un simbolo da distruggere. L’ordine di Lenin di uccidere la famiglia reale arrivò la notte tra il 16 e il 17 luglio. Nicola II, la zarina, i cinque figli e quattro membri della corte che li avevano seguiti fino a Ekaterinburg. E’ finito sotto i colpi delle baionette e seppellito sotto terra questo simbolo del vecchio mondo, con i suoi riti, le sue letture, le sue fragilità, l’impotenza di una vita che si era ritrovata con troppo potere in mano. Quella vita, con i gioielli, gli stemmi, i pizzi, le gite in barca, le letture che l’Europa non ha salvato è stata santificata dalla chiesa ortodossa. Con i Romanov è morta la Russia imperiale, che è rimasta un ricordo, una storia, un desiderio che l’Urss, il Cremlino e i russi non hanno mai smesso di rimpiangere. 

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