I cavalli, i “cuori stranieri” e il futuro dell'Ue secondo il polo Orbán- Kaczynski
L’Ungheria è una democrazia mondata dal liberalismo che i leader di Budapest e Varsavia considerano un cancro che sta uccidendo il Vecchio continente
Milano. “In Ungheria, quando si ha fiducia in qualcuno, si usa dire: ‘Possiamo andare a rubare cavalli insieme’”. Così, nel 2016, il premier magiaro Viktor Orbán ha manifestato la sua stima nei confronti del polacco Jaroslaw Kaczynski, che è suo collega de facto pur non avendo cariche istituzionali – già primo ministro una decina di anni fa, Kaczynski dal 2015 guida per interposta persona l’esecutivo di Varsavia, in qualità di leader del partito Libertà e Giustizia. “C’è una stalla particolarmente grande che si chiama Unione europea e lì possiamo rubare cavalli insieme con gli ungheresi”, ha replicato Kaczynski.
Attraverso questi calembour equestri da avventurieri della puszta, i due uomini forti hanno intrecciato un’intesa culturale prima che politica e hanno cercato di sviluppare nei rispettivi paesi i prolegomeni a una controrivoluzione capace di estendere la sua forza di attrazione oltreconfine e di annacquare quello che nelle cancellerie di Varsavia e Budapest è vissuto come un paternalistico, e suicida, dogma europeo: il liberalismo.
Domani in Ungheria si vota e Orbán misurerà il consenso per il suo partito Fidesz, che governa dal 2010: l’esito sembra scontato e si attende soltanto di scoprire se Fidesz raggiungerà i due terzi dei seggi come nel 2010 e nel 2014. In questi otto anni Orbán ha occupato ogni spazio, ha imposto uomini fidati nelle università, nei media e nei teatri (che sono centrali nella società ungherese) ed è intervenuto con mano pesante nella magiarizzazione e nella cristianizzazione di ogni manifestazione culturale promossa dallo stato. No, l’Ungheria non è una dittatura, ma, secondo la definizione dello stesso Orbán, è una “democrazia illiberale”. In altre parole, l’Ungheria è una democrazia mondata dal liberalismo, che, secondo Orbán e Kaczynski, è un cancro che sta uccidendo il Vecchio continente. E proprio su questo punto insiste la Kulturkampf polacco-ungherese.
Il nemico, sia per Orbán sia per Kaczynski, è l’afflusso di capitali stranieri in settori chiave. Il nemico è il cosmopolitismo. Il nemico è il multiculturalismo. Il nemico è chi opera per diluire la natura cristiana della nazione. In Polonia, “cristiano” significa “cattolico”; in Ungheria, dove ci sono sia cattolici sia protestanti (Orbán ad esempio è protestante), “cristiano” significa genericamente “cristiano”; però in entrambi paesi, troppo spesso, “cristiano” significa anche “non musulmano”, qualora ci si riferisca all’immigrazione più recente, e soprattutto “non ebreo”, se invece ci si riferisce ad autoctoni. Un’altra espressione, apparentemente pudica ma dalle risonanze sinistre, per riferirsi a cittadini di altra religione è “persone con il cuore straniero”. In ogni caso, il nemico è soprattutto George Soros, ebreo ungherese-americano, additato dalla propaganda locale e internazionale come l’archetipo del “non cristiano”, che usa i suoi soldi per favorire la sostituzione etnica e l’implosione dell’Europa.
La Polonia e l’Ungheria hanno delle differenze. La prima è slava, ed è circondata da paesi slavi, la seconda è invece un’isola estranea in un mare slavo, con una lingua e una cultura proprie. A Varsavia il sentimento antirusso è fortissimo, mentre a Budapest, anche per ragioni di opportunità energetica, i rapporti con Vladimir Putin non sono tesi. La Rzeczpospolita Polska ha più di 38 milioni di abitanti e, dopo la Brexit, è diventata il quinto paese più popoloso dell’Unione europea, la Magyarország, invece, è un peso leggero, con meno di dieci milioni di residenti. Ma i due paesi hanno molto in comune, e molto in comune hanno Orbán e Kaczynski, che Politico.eu ha definito “i nuovi comunisti” – perché entrambi possono contare su opinioni pubbliche che, forgiate da anni di autoritarismo, sono avvezze a manovratori permissivi soltanto con chi non li disturbi, secondo lo stile di János Kádár, leader per più di trent’anni dell’Ungheria comunista.
La cabina di regia dell’azione politico-culturale di Orbán e Kaczynski è il cosiddetto gruppo di Visegrad, che include anche la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Ma sono soprattutto Viktor & Jaroslaw a interpretare il ruolo di guastatori nell’Ue, impuntandosi sulla gestione dei flussi migratori e poi, a cascata, su molti altri dossier. Definirli antieuropei è fuorviante. I due si sentono, al contrario, turbo-europei e come tali si comportano: “Ventisette anni fa, qui in Europa centrale, pensavamo che l’Europa fosse il nostro futuro, ora sentiamo di essere noi il futuro dell’Europa”, ha detto il premier ungherese l’estate scorsa. Kaczynski e Orbán non accettano più di essere alla periferia di un’Europa che ha il suo centro in Occidente e vogliono proiettare su tutto il continente il loro progetto di stato-fortezza, impermeabile a ogni afflusso allogeno, sia esso un profugo oppure un’idea “liberale” insufflata da un’università finanziata da Soros e dal suo “cuore straniero”.
Alla base c’è quella paura già individuata negli anni Quaranta dall’ungherese István Bibó in “Miseria dei piccoli Stati dell’Europa orientale” (il Mulino) e in altri deliziosi scritti: la paura di paesi che hanno subito una raffica di dominazioni straniere e che non vogliono aggiungere nuovi voci al cahier de doléances della loro identità strapazzata (la Polonia) o che sentono una saudade mitteleuropea per quello che erano e non sono più e che ora non vogliono mollare nemmeno un lacerto della loro sovranità (l’Ungheria). Non è un caso che Orbán abbia concesso la cittadinanza a più di un milione di ungheresi che vivono oltre i confini contenitivi disegnati nel 1918 – il 6 per cento degli abitanti della Romania e quasi il 10 per cento degli abitanti della Slovacchia sono di lingua e cultura magiara e ci sono minoranze ungheresi importanti anche in Serbia, in Ucraina e in altri paesi vicini. Nel 2015 il presidente della Commisione, Jean-Claude Juncker, ha salutato l’arrivo di Orbán a un vertice europeo con le parole: “The dictator is coming!”. Juncker stava soltanto scherzando. Perlomeno in quell’occasione.