Steve Bannon (foto LaPresse)

Perché il laboratorio ungherese di Orbán è la passione di Bannon

Paola Peduzzi

L'Ungheria che l'8 aprile andrà al voto, realizza quello che l'ex consigliere di Trump ha a cuore: non una mera rivoluzione politica, bensì una rivoluzione culturale

Roma. Nel suo tour europeo pieno di interviste e di chiacchiere e di incontri, Steve Bannon ha detto, tra le altre cose, che “l’uomo più importante sulla scena oggi è Viktor Orbán”, il premier ungherese, “un eroe”. Bannon è l’ex superconsigliere di Donald Trump, uscito dalla Casa Bianca e dai favori dei finanziatori più rilevanti e generosi dell’emisfero trumpiano, la famiglia Mercer, sta costruendo un progetto che integra in occidente una certa visione di mondo, che nell’Ungheria forgiata da Orbán – si vota nel paese l’8 aprile – prende la forma di “democrazia illiberale”. Bannon sta cercando un punto d’appoggio e di convergenza, e da quel che dice lo fa a livello di comunicazione: “Sto cercando dei media, ma anche di costruire un esercito grassroot digitale negli Stati Uniti per sostenere il movimento nazionalista populista per partire come con un think tank o qualcosa del genere che inizi a utilizzare le idee come delle armi”.

 

Il caso ungherese, con l’eroe Orbán, è un laboratorio eccezionale perché realizza quel che Bannon ha a cuore: non una mera rivoluzione politica, bensì una rivoluzione culturale. Sul New York Times, Patrick Kinglsey ha raccontato in una serie di pezzi la trasformazione dell’Ungheria, andando oltre all’erosione di alcuni pilastri della democrazia e oltre la lotta contro George Soros, ma concentrandosi proprio sul cambiamento culturale: incontri, guru di riferimento, libri di scuola.

 

A Budapest, i funzionari dicono che la trasformazione del paese non ha nulla di ideologico: stiamo facendo le riforme, sostengono, con quel piglio tecnocratico che fa il verso a quello utilizzato dalle nostre élite (da noi) nella Vecchia Europa. “Emmanuel Macron in Francia fa la stessa cosa”, dice il direttore di una nuova università creata da Fidesz, il partito di Orbán, per formare funzionari e leader (è considerata la versione ungherese dell’Ena di Parigi, non sfuggono i paragoni beffardi), “è quel che accade nelle società democratiche”, sottolinea questo professore, Andras Patyi.

 

Orbán dedica tutti i giovedì a leggere saggi, documenti, rilevazioni, e incontra scrittori e pensatori per farsi raccontare come cambia la società, come cambiano i comportamenti. Il premier ungherese ha anche una passione per gli psicologi: sarà che la faccenda della Cambridge Analytica è notizia fresca, con i suoi ritratti psicografici e i professori di psicologia un po’ corsari, ma si nota una certa corrispondenza nella ricerca cosiddetta comportamentista e umanista tra il progetto di Bannon e quello dell’Ungheria contemporanea.

 

L’anno scorso Orbán ha incontrato Philip Zimbardo, il professore della Stanford University che ha pubblicato qualche anno fa “The Lucifer Effect” sulla seduzione del male e che è più celebre per l’esperimento “Stanford Prison” del 1971, che mostrava come si può diventare autoritari nel giro di poco tempo e soprattutto come far accettare tale autoritarismo come se fosse un’opportunità, non oppressione. Zimbardo ha poi raccontato che il premier ungherese non era tanto interessato all’esperimento in sé, ma a come è possibile convogliare in modo sistemico insofferenze e l’idea di essere stati scartati dal progresso.

 

Ed è proprio da questa insofferenza che Orbán ha costruito il suo progetto culturale che tanto affascina uno attento come Steve Bannon: oltre alle organizzazioni non governative che sono state regolamentate in particolare per contenere proprio l’odiatissimo Soros, ci sono le università, i think tank, le campagne di sondaggi gestiti dal governo – piccoli informali referendum che fanno da termometro dell’umore popolare: è una formula che va fortissimo sui social in particolare, perché è uno strumento per sentirsi partecipi, e far-sentire-la-propria-voce – i nuovi libri di testo (e a scuola bisogna studiare a memoria anche il nuovo preambolo alla Costituzione, che stabilisce le radici cristiane esclusive della nazione ungherese, dimenticando la memoria ebraica) e anche i teatri. Ce n’è uno in particolare a Budapest, Uj Szinhaz, che è stato molto raccontato perché è lo specchio di questa rivoluzione culturale: spettacoli sul nazionalismo contro l’invasione degli stranieri e soprattutto la rappresentazione di quanto si soffre quando si è oppressi dal giogo social-liberale.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi