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Davvero l'America sta preparando un intervento militare contro la Corea del nord?

Giulia Pompili

Le voci su un possibile attacco si fanno più insistenti, ma dietro ci sono anche segnali di propaganda

Sono giorni che si fanno sempre più insistenti le voci di un possibile attacco militare degli Stati Uniti contro la Corea del nord. Anche in Corea del sud, dove generalmente i momenti di tensione con il Nord vengono vissuti come la normalità, si comincia a sospettare che l'America stia davvero studiando una opzione militare contro il regime di Kim Jong-un.

 

Secondo fonti del Foglio, alcune organizzazioni internazionali, quindi con personale straniero, di base in Corea del sud, hanno iniziato a programmare le evacuazioni d'emergenza dei dipendenti non necessari a Manila. La capitale filippina, infatti, si trova a circa duemila chilometri dalla penisola coreana, al sicuro anche in caso di uso di ordigni atomici.

 

Da una parte, il dialogo offerto dal presidente sudcoreano Moon Jae-in in vista delle Olimpiadi invernali è stato interpretato come “un tradimento” della posizione di “massima pressione” propugnata da Washington – mentre per gran parte degli analisti la riapertura del canale di dialogo tra Seul e Pyongyang è necessario, anche se questo potrebbe compromettere i rapporti diplomatici tra Donald Trump e Moon.

 

Ci sono due notizie che in questi giorni hanno riacceso la discussione su un eventuale attacco militare americano contro la Corea del nord. Prima di tutto c'è la nomina di Victor Cha come ambasciatore degli Stati Uniti in Corea del sud, saltata un paio di giorni fa. E' più di un anno, da quando cioè l'ex ambasciatore Mark Lippert ha dovuto lasciare il suo posto, che la sede americana di Seul è vacante. Cha, che è americano di origini coreane, ha un profilo accademico, cattedra alla Georgetown e ricercatore al Center for Strategic and International Studies di Washington, ha già lavorato come advisor per la Casa Bianca per gli Affari asiatici con Bush. Secondo varie fonti, Cha era a un passo dalla nomina ufficiale. Il Financial Times scrive oggi che “due persone che conoscono l'argomento dicono che la Casa Bianca ha smesso di rispondere alle telefonate di Cha dopo che, durante un incontro a dicembre, aveva espresso preoccupazioni riguardo a un piano per dare un avvertimento a Pyongyang attraverso uno strike militare”. Secondo quanto riportato da questo durissimo editoriale pubblicato oggi dal Joongang Ilbo, quotidiano conservatore sudcoreano, la nomina di Cha era stata perfino già approvata dal governo sudcoreano, e l'Amministrazione di Moon adesso “deve stare molto attenta ai suoi prossimi passi”.

 

Victor Cha ha scritto ieri un lungo editoriale sul Washington Post per spiegare le ragioni del suo allontanamento. Scrive: “Mi associo alla speranza, che è condivisa da alcuni funzionari di Trump, che un attacco militare potrebbe scioccare Pyongyang fino a fargli apprezzare la forza degli Stati Uniti, dopo anni di inattività contro Pyongyang, e costringere il regime al tavolo negoziale di denuclearizzazione. Spero anche che se la Corea del nord reagisse militarmente, gli Stati Uniti siano in grado di controllare l'escalation per minimizzare i danni collaterali e prevenire il collasso dei mercati finanziari. In ogni caso, il motivo per cui gli Stati Uniti hanno deciso di perseguire 'tutte le opzioni' è dare al volubile Kim una lezione seria. Altrimenti rimarrà imperterrito nelle sue ambizioni nucleari. Tuttavia, c'è un momento in cui la speranza deve cedere alla logica. Se crediamo che il regime di Kim sia insostenibile senza uno strike, come possiamo credere che questo lo scoraggerà da una risposta di qualche tipo? E se Kim è imprevedibile, impulsivo e irrazionale, come possiamo controllare l'escalation, analisi basata sulla razionale conoscenza dell'avversario?”. Ieri perfino 38th North, l'istituzione di studi sulla Corea del nord tra le più importanti al mondo, ha pubblicato un report del prof. Robert Jervis per “analizzare la decisione degli Stati Uniti di usare la forza contro la Corea del nord: problemi, opzioni e conseguenze”: un documento zeppo di consigli per l'Amministrazione Trump, per evitare errori grossolani e prevedibili.

 

Poi c'è l'analisi del discorso di Donald Trump sullo Stato dell'Unione. Scrive Peter Beinart sull'Atlantic che Trump ha dedicato ben 475 parole del suo discorso alla Corea del nord, senza fare riferimento alla Cina, come aveva fatto in passato parlando di un “aiuto” per risolvere la questione con Pyongyang. Trump ha parlato di un nordcoreano, Ji Seong-ho, che era presente in sala: un cosiddetto “defector”, scappato dal Nord e ora attivista per i diritti umani. Per la politica estera della Casa Bianca, Kim Jong-un resta centrale.

 

Eppure, come ogni rumor che riguardi la strategia americana sulla Corea del nord, anche questi segnali vanno presi con estrema cautela. Joseph Yun, rappresentante speciale dell'America per gli Affari nordcoreani, ha detto ieri a Tokyo che “tutte le opzioni sono sul tavolo” ma che “l'opzione militare non è così vicina”. Il riferimento costante all'intervento militare potrebbe essere una strategia per avvertire Kim Jong-un durante questo periodo di sospensione strategica della tensione dovuto ai Giochi olimpici. Al Sud, che si prepara a celebrare le olimpiadi di Pyeongchang tra qualche giorno, ci sono state proteste per la presenza degli atleti nordcoreani, ma in molti vedono questa condivisione come un momento per allentare la tensione.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.