Paul Thomas Anderson e Joaquim Phoenix con Harvey Weinstein (foto LaPresse)

L'inchiesta su Weinstein e le mire universali della campagna contro il maschio

Il New Yorker torna su un caso ormai sublimato

New York. La seconda parte dell’inchiesta del New Yorker su Harvey Weinstein, nel frattempo caduto in modo spettacolare in disgrazia e a rischio incriminazione a New York, rivela cose importanti e inquietanti che la prima sezione del racconto non risolveva. Ad esempio, come faceva il superproduttore di Hollywood a non far arrivare ai giornali storie di molestie di cui, si dice ora, tutti nell’ambiente erano direttamente o indirettamente a conoscenza. Ronan Farrow documenta le tecniche aggressive e i metodi intimidatori con cui Weinstein faceva pressione sulle vittime perché non parlassero e fa una ricognizione dell’esercito legale e investigativo messo in piedi dal produttore per non far uscire informazioni sgradite servendosi di ricatti, minacce e di un ampio apparato mercenario per la raccolta di informazioni. Spuntano ex agenti del Mossad che spacciandosi per attivisti dei diritti delle donne blandiscono le vittime del porco per capire chi sa cosa, aziende fittizie per fare da copertura, sofisticate operazioni intercontinentali di spionaggio, pedinamenti di giornalisti integerrimi, compensi distribuiti a quelli corrotti, visite con gli avvocati ai direttori dei giornali che lavoravano sul caso, inchieste che improvvisamente si inabissano ed ex direttori del New York Times che altrettanto improvvisamente non ricordano. Spunta anche David Carr, grande media reporter morto nel 2015, intimidito da qualcuno che lo segue proprio mentre sta scavando sulla vicenda. C’è pure l’avvocato che rappresenta personalmente il produttore mentre il suo studio rappresenta il New York Times, e lui non ci vede nessun conflitto d’interesse. E’ il sogno di ogni giornalista d’inchiesta. Quando Weinstein non si era ancora reso conto dell’entità della valanga che lo stava per travolgere, ha detto che la storia messa in piedi dalle sue accusatrici era “così bella che voglio comprare i diritti per farci un film”. Sapeva quello che diceva, ché l’intero affare è puro Hollywood, però con vittime vere e vera indignazione.

 

Il problema di questa seconda puntata è che arriva quando la vicenda di Weinstein ha da tempo cambiato natura, diventando qualcos’altro. Il produttore è sublimato nell’idealtipo del molestatore maschio e da lì si è passati direttamente al processo giacobino al maschio tout court. La figura di Weinstein si è fissata come un totem nella coscienza collettiva, i suoi abusi raccontati dalle vittime si sono sovrapposti agli abusi di chiunque altro in qualunque altro momento storico, e pure l’illusione che fosse un dramma legato ai rapporti fra uomo e donna è stato superato dalle accuse di violenze squisitamente omosessuali mosse a Kevin Spacey. Il risultato è che agli occhi dei cavalcatori dello Zeitgeist contro il maschio globale questa seconda parte dell’inchiesta appare come un passo indietro. Si ritorna infatti alla storia particolare di un uomo specifico, un uomo di potere evidentemente consumato dagli appetiti che in un vortice di paranoia mette in piedi un cinematografico sistema di pressioni e depistaggi per difendere il suo feudo: non è esattamente la vicenda del maschio medio che getta sguardi oppressivi e patriarcali nella scollatura della collega. Forse questo era l’intento originario, scrivere un exposé giornalistico per smascherare un uomo che aveva messo a sistema l’antica logica del casting couch. Poi, seguendo una logica induttiva, il caso Weinstein è diventato l’universale processo al predatore, e da quel momento sono stati talmente tanti gli uomini a finire sotto il rito abbreviato della prima pagina che i più zelanti attivisti si sono forse perfino voluti dimenticare del suo volto barbuto, ché ogni ritorno al caso circostanziato avrebbe diluito le ambizioni universali della campagna.

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