Pablo Iglesias (foto LaPresse)

Le acrobazie di Podemos, partito alluvionale di raro opportunismo

Guido De Franceschi

Il movimento non ha preso una posizione sulla Catalogna, cioè ha preso in contemporanea quasi tutte le posizioni disponibili

Milano. Lo slogan con cui gli indipendentisti catalani hanno chiamato al voto nel referendum illegale di domenica scorsa è una bella rielaborazione di una citazione gramsciana: “Viure vol dir prendre partit”, “Vivere vuol dire prendere partito”. Quelli di Podemos non hanno capito bene la frase – forse la parola “partito”, così ingessata, li spaventa un po’, loro preferiscono vedersi come un “movimento”, anzi come una somma di movimenti, alleati con altri movimenti ancora, perché el pueblo unido jamás será vencido. In ogni caso, Podemos non ha preso una posizione sulla faccenda catalana. E, fin qui, non ci sarebbe niente di male: il chissenefrega del referendum, perlomeno se non si sta al governo, è un’opzione politica legittima. Il problema è che Podemos non ha preso una posizione sulla faccenda catalana perché ha preso in contemporanea quasi tutte le posizioni disponibili – e segnatamente tutte quelle gratis, quelle che non fanno perdere neanche un mezzo voto – comportandosi, questa volta, proprio come i Cinque stelle, a cui i seguaci di Pablo Iglesias sono spesso paragonati con troppa faciloneria.

 

Podemos ha raccolto voti in caduta libera da tutte le provenienze e ora, per non perderli, liscia a uno a uno tutti i peli dei suoi elettori – unionisti, separatisti, madrileni, andalusi, baschi e catalani. E chiede a gran voce le dimissioni di Rajoy: tanto anche questo non costa nulla

A una prima occhiata, sul tema catalano, i podemitas nazionali (madrileni, spagnoli) sembrano adamantini. Ma è soltanto un effetto ottico: in realtà, sono soltanto generici. Certo, si dichiarano favorevoli al “diritto di decidere” dei catalani attraverso un “referendum pactado” con lo stato centrale. Ma, visto che un “referendum pactado” le leggi spagnole non lo prevedono, dichiarare da Madrid che si è a favore del “diritto a decidere”, senza aggiungere una road map più circostanziata, significa pronunciare un’espressione vuota. Ma d’altronde, se un altro mondo è possibile, allora anche un altro referendum è possibile, anche quello che non c’è. Il problema è che Podemos non può rinunciare a far baluginare all’orizzonte un’ipotesi referendaria perché si è gonfiato elettoralmente anche drenando il bacino di voti dell’indipendentismo basco e galiziano. Ma deve muoversi con cautela perché agli elettori di Madrid o di Cordoba la parola “referendum” va sempre sussurrata a bassissima voce. Quindi – viene da pensare – quello di domenica scorsa per Podemos non era il referendum giusto soprattutto perché non era un referendum immaginario, immerso nelle comode brume di un futuro indistinto, ma, legale o illegale che fosse, era un referendum che aveva un hic e un nunc e obbligava quindi Podemos a esprimersi. Andare a votare o restare a casa? Indipendenza sì o indipendenza no? Ma qui Podemos glissa. Silenzio! Parlerà il popolo! Ma non in quest’occasione, bisognerà aspettare il referendum giusto, quello che non esiste.

 

Però intanto Dante Fachin, il leader del Podemos catalano (che si chiama Podem), era a favore anche di questo referendum, quello illegale, e, supportato da un voto a maggioranza delle basi di Podem ma criticato dalla testa madrilena del partito, ha partecipato attivamente alla campagna elettorale, propagandando le ragioni del “no” all’indipendenza. In contemporanea, nel Parlamento catalano, il veterano gauchiste Joan Coscubiela, applauditissimo dai nemici del referendum, tuonava contro le forzature legali con cui il Govern di Carles Puigdemont stava violando le leggi e metteva in guardia colleghi e cittadini sui pericoli di un uso disinvolto di maggioranze risicate per prendere decisioni trascendentali. Certo, Coscubiela non è di Podemos e neanche di Podem, ma è pur sempre il portavoce di Catalunya Sí que es Pot, la sigla con cui Podemos ha partecipato, in alleanza con altri movimenti, alle elezioni regionali e con cui ora partecipa ai lavori nel Parlament. Negli stessi giorni, dopo che l’opposizione “unionista” aveva abbandonato per protesta l’Aula barcellonese lasciando ben esposte sui suoi banchi bandiere spagnole e catalane, un’altra deputata di Catalunya Sí que es Pot, Àngels Martínez, rimuoveva con beffarda ostentazione le bandiere spagnole (e soltanto quelle spagnole), incurante dei rimproveri da parte della presidente del Parlament, l’iperindipendentista Carme Forcadell che, mentre disobbediva alla legge spagnola voleva, quantomeno, salvare il galateo.

 

Riassumendo: Podemos nazionale attendeva, e attende, il referendum giusto, bello e impossibile; il leader di Podem era a favore del referendum illegale, ma contrario all’indipendenza; il portavoce di Catalunya Sí que es Pot era disgustato da come si era arrivati al referendum; un’altra deputata di Catalunya Sí que es Pot superava gli indipendentisti sospendendo, in anticipo sull’esito di questo o di qualsiasi altro referendum, il diritto di sventolio delle bandiere spagnole nel Parlamento catalano.

 

L’impossibile sintesi di queste frenetiche acrobazie si è incarnata in Ada Colau, sindaco di Barcellona (avvertenza per districarsi nel groviglio di alleanze a geometria variabile della sinistra movimentista: Ada Colau non è né di Podemos né di Podem e neanche di Catalunya Sí que es Pot, ma è stata eletta con Barcelona en Comú, un’altra aggregazione elettorale, questa volta civica, il cui pilastro centrale è comunque sempre Podemos). In breve, ecco quale è stata la posizione della Colau nelle settimane anteriori al voto: questo non è il referendum che vorrei, perché è illegale, e quindi non ne ritengo vincolante l’esito e non darò spazi comunali per allestire i seggi. Però il desiderio di votare è comunque sano e quindi non impedirò che siano installate le urne nel territorio comunale, anzi andrò a votare anch’io, e lo farò con entusiasmo, ma annullerò la scheda o la lascerò bianca.

 

Mentre indipendentisti e unionisti, tutti sporchi di fango, cercano ancora di capire chi abbia vinto e chi abbia perso, i podemitas attraversano il campo di battaglia con le nivee vesti virginali di chi non ha violato la legge e non ha neppure impugnato il manganello. E così, mentre Mariano Rajoy delega i suoi compiti di capo del governo alla negazione della realtà e alla Guardia civil, mentre i socialisti balbettano le solite brillanti soluzioni che li hanno condotti all’irrilevanza in Catalogna e mentre gli indipendentisti galoppano verso l’orizzonte da cui sorge il sole della Repubblica catalana, senza accorgersi che forse è soltanto un fondale dipinto da un madonnaro, c’è il rischio che in questi giorni di dopobomba e, ancor di più, nel caso di eventuali elezioni anticipate, qualcuno scambi la totale assenza di idee (o la compresenza di tutte le idee possibili) di Podemos e dei suoi compagni di strada per una posizione politica moderata, di buon senso e, paradossalmente, più centrista. E invece no, è la solita non-posizione opportunista di un partito alluvionale, che ha raccolto voti in caduta libera da tutte le provenienze e ora, per non perderli, liscia a uno a uno, e ciascuno per il suo verso, tutti i peli dei suoi elettori – unionisti, separatisti, madrileni, andalusi, baschi e catalani. Nel frattempo si possono comunque chiedere a gran voce le dimissioni di Rajoy, tanto anche quello non costa nulla.

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