Kim Jong-un (foto LaPresse)

Kim è arrivato prima

Daniele Raineri

Perché a questo punto la Corea del nord atomica tornerà al tavolo negoziale con un vantaggio enorme e l’America non se la caverà senza cedere moltissimo

E se avesse avuto ragione Steve Bannon? Davanti allo stallo senza soluzione tra Corea del nord e America viene in mente l’intervista molto candida rilasciata alla rivista di sinistra The American Prospect dall’ex consigliere di Trump, che è vicino all’ala nazionalista e razzista della destra americana ma a proposito della Corea del nord ha parlato con una semplicità disarmante. “Fino a quando qualcuno non risolve la parte dell’equazione che mi mostra come dieci milioni di persone non muoiono nei primi trenta minuti a Seul, non so di che cosa stiamo parlando; non ci sono soluzioni militari, ci hanno bloccati”. Bannon, che poi è stato rimosso dalla Casa Bianca, aveva così contraddetto in modo esplicito il presidente che aveva parlato di una irresistibile rappresaglia americana contro la Corea a base di “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto”. Insomma, Bannon e molti altri hanno inquadrato bene il problema dell’infinito potere di deterrenza americano contro la Corea: che minaccia conseguenze pesantissime, ma soltanto dopo, a disastro avvenuto. Se Kim usa l’arma nucleare poi di certo subirà una reazione devastante perché l’Amministrazione Trump può lanciare sulla Corea decine di testate atomiche anche più potenti, ma ormai il danno è fatto: ci sarà almeno una città colpita. La più probabile è Seul, la capitale della Corea del sud a poche decine di chilometri dal confine. Oppure, ora che la Corea sperimenta i missili balistici intercontinentali, anche Tokyo in Giappone o San Francisco sulla costa della California, entrambe nel raggio ipotetico d’azione dei tecnici coreani.

 

“Finora nessuno ha risolto un problema: come si evitano dieci milioni di morti nei primi trenta minuti di un attacco nordcoreano?”

Domenica pomeriggio il capo del Pentagono, il generale Jim Mattis, nel giardino davanti alla Casa Bianca ha detto che l’America “non vuole la distruzione totale della Corea del nord, ma ha molti modi per farlo”. Si tratta, appunto, della non-soluzione in mano all’Amministrazione. In pratica dice: negoziamo, perché altrimenti arriveremo a un finale tremendo. E’ difficile trattare in queste condizioni, perché non ci sono gradazioni, o si accetta tutto il pacchetto di richieste oppure c’è il rischio di una guerra atomica nella parte più popolosa del mondo (tocca dirlo che siamo noi la periferia in questo caso). Bannon nell’intervista aveva provato a immaginare un embrione di soluzione alternativa: l’America si ritira dalla penisola coreana e la Cina in cambio ottiene dal regime nordcoreano un progressivo congelamento del programma atomico. Vale a dire che toglie a Pechino uno dei motivi per cui i cinesi hanno sostenuto la dinastia coreana fino a oggi: tenere lontani gli americani. Se Kim fosse rimosso oggi in modo brutale e le due Coree si riunificassero, è probabile che la Cina si troverebbe con la basi americane al confine. Ipotesi non gradita a Pechino. Quindi, dice Bannon, che deve essersi visto più di un briefing alla Casa Bianca su questo argomento, diamogli quello che vogliono e che se la vedano loro con tutta la fase dei negoziati con Kim. Altri analisti hanno già valutato quest’opzione e non sono per nulla d’accordo, c’è chi dice che ritirarsi suonerebbe come un tradimento per la Corea del sud in un momento delicatissimo. Altri dicono che ritirarsi dalla penisola acuirebbe le tensioni, perché non ci sarebbero più soldati americani esposti alla guerra in Corea e quindi – nella testa di Kim – Washington potrebbe essere più veloce a schiacciare il bottone della guerra atomica.

 

Quindi, l’Amministrazione Trump ha due opzioni generali davanti per quanto riguarda il dossier Kim: continuare a sventolare la minaccia apocalittica di un dopo a cui non vuole arrivare nessuno, come sanno i generali che attorniano il presidente, oppure deve infilarsi in un cambiamento radicale degli equilibri nella regione, come il beffardo Bannon notava nell’ultima intervista fatta prima di essere licenziato come si aspettava che sarebbe successo. Del resto, diceva Sun Tzu nell’arte della guerra, non puoi pretendere di uscire da una trappola in cui ti sei ficcato esattamente uguale a come eri entrato.

 

L’America ha due opzioni: minacciare
un contrattacco atomico o proporre
un cambiamento radicale degli equilibri nella regione

Per ora l’America non può fare altro che aspettare, davanti a una Corea del nord che sta “implorando di fare la guerra”, secondo le parole di ieri dell’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Nikki Haley. In realtà, come aveva previsto l’analista americana Suzanne DiMaggio, questa escalation coreana è perfettamente logica. Il presidente Trump ha scambiato una breve pausa nei test bellici per un segnale di rispetto e di appeasement e invece Pyongyang ha capito che più effettua test e più mostra i muscoli e migliore sarà la sua posizione quando tornerà al tavolo dei negoziati. E infatti due giorni fa ha provato l’atomica e ora, forse entro la settimana, si prepara a compiere un secondo test con un missile balistico, dice il ministero della Difesa della Corea del sud. Inoltre, scrive DiMaggio, la Corea del nord è arrivata alla conclusione che l’Amministrazione Trump è indisciplinata, distratta e incoerente, “loro invece sono concentrati e non battono ciglio”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)