Il generale iraniano Qassem Suleimani

Mai sprecare un jihadista

Daniele Raineri

Un libro pieno zeppo di dettagli spiega quali sono i governi (e il generale) che coccolano i gruppi terroristici

Roma. Non si spreca mai un fanatico. Due giornalisti inglesi specializzati in indagini su temi di sicurezza nazionale – armi atomiche, gruppi terroristici – hanno scritto un libro molto lungo e pieno di dettagli per spiegare come ha fatto al Qaida a sopravvivere alla reazione americana dopo gli attacchi dell’11 settembre (“The Exile”, 600 pagine, Bloomsbury, appena uscito negli Stati Uniti). Il succo della spiegazione è questo: che l’organizzazione ci è riuscita grazie alla complicità con l’intelligence pachistana – e questo si sapeva, è uno dei pochi luoghi comuni sul terrorismo che è anche un fatto reale – e anche grazie all’appoggio spettacolare dell’intelligence iraniana. Perché aiutare al Qaida, che era braccata – ed è ancora braccata – dal governo americano? Perché i due servizi segreti hanno applicato ad al Qaida il punto di vista cinico della realpolitik: non si spreca mai un fanatico, gli uomini devoti al jihad sono pericolosi, pieni di risorse e pronti a morire, quindi sono anche degli asset, sono risorse da maneggiare con cautela ma che possono venire utili. Quindi – prosegue il ragionamento – bisogna resistere alla tentazione di eliminarli in massa quando se ne ha l’occasione e al contrario tenerne una scorta a disposizione in qualche modo e con discrezione, per poi usarla contro il nemico quando serve.

 

Così, quando nel 2001 l’Amministrazione Bush scatena una guerra in Afghanistan per dare la caccia ai capi di al Qaida, quelli fuggono in due direzioni. Alcuni finiscono in Pakistan – anzi: in mano al Pakistan – e tra loro c’è anche Osama bin Laden, che nel 2005 viene sistemato nella villetta chiusa di Abbottabad dove sarà scovato dagli americani nel 2011. La maggioranza invece finisce in Iran e viene presa in consegna dai servizi segreti iraniani. In particolare, a organizzare l’accoglienza di al Qaida c’è il capo della brigata Gerusalemme delle Guardie della rivoluzione, il generale Qassem Suleimani. I terroristi in fuga dapprima sono tenuti in una situazione molto simile agli arresti domiciliari, dietro finestre oscurate e senza contatti con il mondo esterno. Poi imparano a far passare il tempo con rassegnazione in una base segreta che si chiama Blocco 300 – detta anche “il Resort turistico” – in condizioni che sono sempre più comode e permissive. Gli iraniani li portano in gita a Teheran, dove si mescolano ai turisti occidentali e dove devono trattenere l’impulso a scambiare quattro chiacchiere in inglese con loro, e gli danno internet, a patto che non usino i social media – del resto, si scusano, nemmeno gli iraniani possono usarli perché sono vietati dalla censura. Quando il capo militare di al Qaida, l’egiziano Saif al Adel, ex colonnello delle forze speciali poi passato al terrorismo, vuole fare esercizio fisico, lo portano in una piscina di lusso nella capitale: al Adel, cinque milioni di dollari di taglia, nuota tra i diplomatici stranieri.

 

Il generale Suleimani che gestisce questa permanenza – così somigliante allo Sean Connery di “Caccia a Ottobre Rosso” – è una vecchia conoscenza per chi segue il medio oriente. Fu lui nel 2007 a mandare un sms al generale Petraeus, comandante dei soldati americani in Iraq: “Generale, dovrebbe sapere che io, Qassem Suleimani, prendo le decisioni dell’Iran per quanto riguarda l’Iraq, il Libano, Gaza e l’Afghanistan. L’ambasciatore iraniano a Baghdad è un uomo della mia unità. Il suo sostituto sarà di nuovo un uomo della mia unità”. Suleimani vince le ritrosie dei politici iraniani, che invece volevano consegnare i qaidisti all’America per guadagnare punti geopolitici. Inoltre, come si sarà già notato, ignora per motivi di strategia la divisione tra sunniti (al Qaida) e sciiti (Iran), che suggerirebbe di sbarazzarsi dei nemici. Sul lungo termine, vince la scommessa: nel 2015 Suleimani ha lasciato andare cinque dei suoi ospiti di al Qaida selezionati per la loro pericolosità – incluso l’egiziano al Adel – e li ha spediti in Siria a ricostruire il gruppo. Sembra un controsenso, non lo è. È strategia a lungo termine. Una presenza di al Qaida in Siria è una garanzia (assieme ad altre) che i governi occidentali non interverranno contro il presidente siriano Bashar el Assad per non rischiare di sbilanciare la situazione a favore dei gruppi terroristici.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)