Zbigniew Brzezinsk

Addio a Zbigniew Brzezinski, il grande stratega americano, all'ombra di Kissinger

Maurizio Stefanini

Figlio di un diplomatico polacco, era fuggito dalla guerra in Europa. E diventò uno dei consiglieri alla sicurezza della Casa Bianca più brillanti e controversi della storia

“Mio padre è deceduto serenamente questa sera. Era conosciuto dai suoi amici come Zbig, dai suoi nipoti come Chef e da sua moglie come l’amore della sua vita. Io l’ho conosciuto come il più stimolante, affettuoso e devoto padre che una figlia possa avere”. Così sui Social Mika Brzezinski, giornalista di MSNBC, ha annunciato la morte a 89 anni di suo padre Zbigniew. Nato a Varsavia il 28 marzo del 1928, era rimasto l’ultimo grande della scienza politica statunitense assieme a Henry Kissinger, con il quale ha condiviso un percorso al tempo stesso convergente e divergente. Come l’ebreo tedesco Kissinger, anche Zbigniew Brzezinski, figlio di un diplomatico polacco, era un europeo che aveva cercato in America rifugio dalle tempeste del Vecchio Continente. Come Kissinger anche lui, dopo aver dato alla scienza politica contribuiti fondamentali, aveva accettato di passare dalla teoria alla pratica, come consigliere alla sicurezza di un presidente. Come Kissinger, fautore dell’alleanza con la Cina, anche Brzezinski impostò un elemento chiave della strategia che avrebbe portato alla vittoria nella Guerra Fredda, nel momento in cui decise di attaccare a fondo il blocco comunista sul tema dei diritti umani, e di appoggiare la guerriglia anti-sovietica in Afghanistan. Ancora come Kissinger, l’uomo del ritiro dal Vietnam, anche lui fu l’artefice di un’importate trattativa di pace, dietro le quinte dell’Accordo di Camp David.

 

Kissinger però era repubblicano, mentre  Brzezinski democratico. Poiché Richard Nixon fu eletto per un secondo mandato, anche se poi fu costretto alle dimissioni per il Watergate, Kissinger poté essere promosso a segretario di stato dopo essere stato insignito del Nobel per la Pace. Con Carter sconfitto da Reagan in seguito al fiasco del sequestro dei diplomatici iraniani a Teheran, Brzezinski non ebbe né avanzamenti, né riconoscimenti da Oslo, anche se il Nobel andò prima a Begin e Sadat e molti anni dopo anche a Carter. In compenso, il contributo scientifico di Brzezinski è forse ancora più importante di quello di Kissinger. Scappato dalla Germania di Hitler, Kissinger è infatti noto soprattutto come uno storico e idealizzatore del sistema istaurato col Congresso di Vienna, che l’austriaco Metternich aveva costruito per rimettere ordine in Europa dopo la tempesta napoleonica. Come politico cercò appunto di ricostruire un ordine mondiale che in qualche modo mettesse insieme un simile concerto di potenze conservatrici, nell’idea che erano proprio le sbornie ideologiche di ogni tipo all’origine di situazioni come quelle che lo avevano costretto a fuggire dalla Germania.

 

Come intellettuale di formazione europea, a sua volta estraneo a un certo messianismo yankee, anche Brzezinski malgrado la sua fama di falco condivideva l’idea che gli Stati Uniti non potessero pensare di gestire il mondo da soli. Nel 2003 si era opposto alla guerra in Iraq,  nel 1977 aveva convinto Carter a firmare il Trattato per la restituzione del Canale a Panama, e quando era consigliere per la sicurezza nazionale dello stesso Carter, ogni volta che doveva parlare col presidente di questioni strategiche importanti, gli metteva sempre davanti un mappamondo. “Per avere una visione strategica di quello su cui stavamo discutendo”, spiegava nelle interviste. E “Visione strategica” era stato appunto il titolo del suo ultimo libro, scritto nel 2012 all’età di 84 anni: “Strategic Vision: America and the Crisis of Global Power”.

  

Però suo padre era stato un patriota che dopo avere lottato per l’indipendenza della Polonia si era messo al servizio del nuovo stato come diplomatico, per il quale aveva servito prima in Germania, conoscendo da vicino il regime nazista; poi in Unione Sovietica, conoscendo da vicino il regime di Stalin; e infine in Canada, il che aveva permesso alla sua famiglia di scampare all’occupazione nazista e poi di rimanere in Nord America dopo la comunistizzazione della madrepatria. Il libro che consegna definitivamente il nome di Brzezinski alla storia, prima ancora del suo ruolo di governo, è “Totalitarian Dictatorship and Autocracy”, scritto nel 1956 assieme a un altro fuggiasco dalle dittature europee, il tedesco Carl Joachim Friedrich, figlio di un professore e di una contessa prussiana. Otto anni prima, un concetto di totalitarismo che accomunava il nazismo di Hilter e il comunismo di Stalin era stato clamorosamente lanciato in “Le origini del Totalitarismo”, grande classico di un’altra esule in America, l’ebrea tedesca Hannaa Arendt. Formidabile strumento di analisi e arma polemica della Guerra Fredda allo stesso tempo, quello di Hanna Arendt era però un concetto affrontato più in chiave filosofica, storica e anche letteraria, che non politologica in senso stretto. Furono invece appunto Brzezinski e Friedrich a enunciare scientificamente i sei criteri per definire se un regime è totalitario. Primo: un partito unico di massa guidato da un capo. Secondo: un'ideologia cui consacrarsi ciecamente. Terzo: il monopolio della forza bruta, degli strumenti di polizia e della lotta armata. Quarto: il controllo centralizzato dell'economia. Quinto: la penetrazione dello stato-partito in ogni settore della società e in ogni dimensione della vita quotidiana. Sesto: il monopolio da parte del partito dei mezzi di comunicazione di massa di propaganda. E sono appunto il quinto e il sesto elemento la grande novità di un sistema di gestione del potere che non si propone di controllare solo la politica, ma in aggiunta di trasformare anche le coscienze individuali.

 

Brzezinski individuò così proprio nell’appoggio al Dissenso, alle coscienze individuali che non si piegano, la grande chiave per far saltare quello che Reagan avrebbe definito “l’Impero del Male”.