Tecnocrazie al lavoro

Stefano Cingolani

Quando Mario Monti nella conferenza stampa di fine anno invitò a essere fieri perché “gli Stati Uniti stanno cercando di fare quello che l’Italia ha fatto nel 2012”, qualcuno ha pensato che avesse scelto un paragone improprio, altri che si fosse proprio montato la testa. Invece, l’osservazione del professore veniva da lontano e voleva andare lontano. Non si riferiva soltanto alla stretta cronaca politica né a operazioni di ordinaria gestione dell’economia. No, sotto c’era qualcos’altro.

    Quando Mario Monti nella conferenza stampa di fine anno invitò a essere fieri perché “gli Stati Uniti stanno cercando di fare quello che l’Italia ha fatto nel 2012”, qualcuno ha pensato che avesse scelto un paragone improprio, altri che si fosse proprio montato la testa. Invece, l’osservazione del professore veniva da lontano e voleva andare lontano. Non si riferiva soltanto alla stretta cronaca politica né a operazioni di ordinaria gestione dell’economia. No, sotto c’era qualcos’altro. Qualcosa che Monti percepisce in modo più acuto rispetto a buona parte delle élite italiane, forse per le sue frequentazioni, forse perché non si limita a leggere la stampa straniera, ma ha all’estero un certo tipo di interlocutori. L’idea dell’Italia come laboratorio nella concezione montiana rimanda a un tema chiave che scompare e riappare come un fiume carsico in occidente almeno dagli anni Settanta: il conflitto tra consenso e governabilità, tra partecipazione ed efficacia decisionale. In altri termini, la crisi della democrazia come la intendeva la commissione Trilaterale. 

    Lo ricorda sull’ultimo numero di Foreign Affairs, dedicato agli Stati Uniti, uno studioso e divulgatore globalista come Fareed Zakaria. Parla di “nuova crisi della democrazia” e fa esplicito riferimento al rapporto sulla paralisi gestionale delle democrazie apparso nel 1975 con il titolo “The Crisis of Democracy” a cura della Trilateral commission. La sezione sugli Stati Uniti, la più corrosiva, era stata scritta da Samuel Huntington diventato famoso un quarto di secolo dopo per il suo saggio sullo scontro di civiltà. “Nessuno negli Stati Uniti vuole un’austerità che riporti il paese indietro verso la recessione – sottolinea Zakaria – ma allo stesso tempo tutti rifiutano misure radicali per affrontare i problemi del debito e del disavanzo pubblico. Il focus a Washington è ora su tasse e tagli; dovrebbe essere su riforme e investimenti. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un serio cambiamento nelle politiche fiscali, infrastrutturali, nel welfare, nell’immigrazione, nell’istruzione. E tuttavia una Washington polarizzata e spesso paralizzata, ha spostato nel futuro la scelta di affrontare questi problemi, il che renderà soltanto più difficile e costoso risolverli”.

    Sclerosi partigiana o competenza tecnica?
    Lo stesso dilemma si pone in tutte le democrazie occidentali destinate, secondo Zakaria, “non alla morte, ma alla sclerosi”. Mentre la Cina o i paesi in via di sviluppo stanno cambiando le regole del gioco. Quando nel 1975 la Trilateral si chiese perché i governi del mondo industrializzato avevano cessato di funzionare, incombevano la crisi petrolifera e il conflitto con il mondo arabo; di lì a poco l’Unione sovietica si sarebbe preparata a invadere l’Afghanistan e Khomeini a tornare trionfatore in Iran. Nel 1984 la commissione pubblica un nuovo rapporto intitolato “La democrazia deve funzionare”, preparato da David Owen, leader del partito social-democratico britannico, Saburo Okita ex ministro degli Esteri giapponese e Zbigniew Brzezinski già assistente per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter. Le crisi del decennio precedente erano passate, Ronald Reagan aveva rimesso in moto l’America, l’Unione sovietica covava il proprio collasso, Deng Xiaoping stava introducendo il mercato nella Cina maoista, la democrazia si espandeva nel mondo, e cinque anni dopo sarebbe caduto il Muro di Berlino. Se nel 1975 il problema in occidente era la ricerca del consenso a tutti i costi, anche a scapito di un comune obiettivo, a metà degli anni 80 diventava l’efficienza distributiva. L’economia di mercato, non più minacciata dal comunismo, richiedeva un’agenda (proprio così) basata sulla crescita, l’internazionalizzazione e un più stretto coordinamento. Si trattava di gettare le basi della globalizzazione, anche se allora non la si chiamava così. Ora il tema viene svolto diversamente, ma con impressionanti assonanze.

    Fino a che punto cercare il consenso? Quando diventa una pratica paralizzante, non bisogna tagliare il nodo gordiano? La sindrome del pasto gratis è, se possibile, peggiorata.
    Il giornalista e politologo Nathan Gardels (intervistato dal Foglio il 4 gennaio) la chiama “Diet Coke Culture”: “La gente esige dolci senza calorie e allo stesso modo vuole consumare senza risparmiare, oppure chiede infrastrutture e istruzione senza voler pagare le tasse”. Conservatore, allora, è proprio chi si lamenta e tuttavia resiste al cambiamento nell’illusione di poter difendere capra e cavoli, privilegi trasformati in diritti inalienabili, comportamenti corporativi diventati trincee inespugnabili. L’anatema di Monti contro Nichi Vendola e Stefano Fassina, accusati proprio di essere “conservatori”, con tanto di invito al Pd a “silenziarli”, potrebbe essere tradotto pari pari da un rapporto della Trilateral. E non solo perché il professore ne è membro e ha ricoperto anche il ruolo di responsabile per l’Europa a partire dal 2000; no, perché è la declinazione polemica di quel tema di fondo: il rapporto tra il riformismo e la demagogia populista, anche nella sua versione nobile o laburista.
    Può creare profonda avversione, può essere considerata l’evoluzione internazionalista di un elitismo antico, radicato anche nella tradizione italiana (dalla Destra storica a Giustizia e libertà); si può risalire persino al tiranno illuminato Gerone primo di Siracusa, istruito da Simonide, o alla platoniana repubblica affidata ai filosofi e alla distinzione tra democrazia e demagogia che torna ciclicamente nella riflessione politica occidentale.

    Oppure si può darne una lettura più fattuale, come fa Zakaria su Foreign Affairs. “C’era una volta una democrazia industriale avanzata che non poteva essere riformata – conclude il saggio – Passò dal dominare il mondo al crescere per due decadi al tasso medio anemico dello 0,8 per cento. Molti membri della sua popolazione anziana e ben educata continuavano a vivere vite piacevoli, ma lasciarono una pesante eredità alle generazioni future. Il suo fardello debitorio ora la paralizza, il suo reddito pro capite è sceso al 24esimo posto nel mondo e continua a cadere. Se gli americani e gli europei non sono capaci di agire insieme, il loro futuro sarà davvero facile da prevedere”. Per l’Italia, dicono le élite del governo del merito e della competenza, il futuro è già cominciato.