Donald Trump (foto LaPresse)

Trump va alla guerra con il procuratore speciale (e con se stesso)

Mentre su Twitter denuncia la "caccia alle streghe", alla Casa Bianca riappare la vecchia guardia. Pence fa le sue mosse. 18 contatti inediti con Mosca

New York. La sera, stanco e massaggiato dai consiglieri più assennati, il presidente Donald Trump comunica con equilibrate note ufficiali la fiducia nella giustizia; la mattina, ringalluzzito dalla tempesta di voci che lo vogliono fuori dalla Casa Bianca al più presto, @realDonaldTrump lancia la controrivoluzione con un’iperbole: “Questa è la più grande caccia alle streghe di un politico nella storia americana!”.

E’ l’impossibile ritmo circadiano che il presidente e il suo doppelgänger dotato di Twitter impongono all’orbe terracqueo. Nella notte Trump ha interiorizzato i rischi della nomina di Robert Mueller come procuratore speciale sui rapporti fra il suo entourage e la Russia, assecondando le richieste dei democratici. Mueller, già direttore dell’Fbi sotto Obama e Bush, ha un profilo in perfetta continuità con quello del suo amico James Comey, il direttore del bureau licenziato da Trump che si sta facendo sentire attraverso esplosivi appunti di conversazioni con il presidente, filtrate alla stampa, su cui grava l’ombra dell’ostruzione alla giustizia. A Washington si parla di “Comey revenge”, e Mueller è parte della stessa vendetta. Gli “almeno diciotto” contatti inediti fra uomini di Trump e il Cremlino fra aprile e novembre del 2016 rivelati dalla Reuters hanno rinfocolato l’ira: “Con tutti gli atti illegali commessi dalla campagna di Clinton e nell’Amministrazione Obama, nessun procuratore è mai stato nominato”. Nel frattempo Michael Isikoff di Yahoo News ha raccontato un dettaglio interessante: Michael Flynn, centro dei drammi concentrici intorno all’Amministrazione, ha detto ad alcuni amici di aver ricevuto, di recente, un messaggio di incoraggiamento da Trump: “Stay strong”.

Il messaggio sembra in linea con la richiesta, fatta a Comey, di risparmiare l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, e complica ulteriormente la posizione del presidente rispetto a un alleato che all’atto della nomina era noto che era stato a libro paga di potenze straniere. La settimana scorsa il Daily Beast ha scritto che a lungo gli avvocati di Trump lo hanno implorato di non contattare più Flynn. Lo sforzo, evidentemente, è stato vano. Giovedì gli avvocati dell’ex generale hanno dichiarato che il loro assistito non darà le carte che gli inquirenti hanno chiesto. Non va mai dimenticato, nel valutare i rapporti con il presidente, che Flynn è l’uomo che all’indomani della sua cacciata ha detto, attraverso i suoi legali, che “ha certamente una storia da raccontare”. La furia di Trump non si limita a Twitter. Il presidente è imbestialito con il suo staff, a partire dal portavoce Sean Spicer, che non è in grado di gestire lo stillicidio di rivelazioni radioattive di questi giorni, e nella confusione strategica che domina le giornate della Casa Bianca ha ripreso contatti con tre consiglieri della campagna elettorale. Corey Lewandowski, il primo e più longevo manager della campagna, è stato avvistato martedì nella West Wing. Era stato il conflitto con Paul Manafort – nome suggerito dal vecchio alleato Roger Stone – a farlo fuori dall’incarico, ma era rimasto sempre nell’orbita trumpiana. Di recente è stato rimosso dall’incarico in un’azienda privata di sicurezza, per il sospetto che offrisse ai clienti accesso alla Casa Bianca. Nella West Wing sono apparsi anche gli ex consiglieri David Bossie e Jason Miller, architetti di quella campagna che ora appare come un periodo di gloria e successi. La nostalgia esercita una particolare influenza su un presidente che è stato eletto, in fondo, per la promessa di riportare in auge un passato mitologico. Lo stesso meccanismo vale per la gestione del suo staff. Chi sta invece cautamente pensando al futuro è il vicepresidente, Mike Pence. Qualche repubblicano sussurra il suo nome pensando all’eventualità di una caduta di Trump, e Pence lavora a un “contingency plan”. La decisione irrituale di formare un suo comitato d’azione politica, chiamato Great America Committee, gli permette una certa autonomia nel raccogliere fondi e forgiare alleanze. L’ha affidato a due fra i suoi alleati più fedeli, Marty Obst e Nick Ayers.

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