Francia, Emmanuel Macron in campagna elettorale (foto LaPresse)

Un Macron a “vocazione maggioritaria” verso le elezioni politiche

Mario Giro*

Il neopresidente dimostra di non aver bisogno di nessuno per vincere. Riduce l’apporto del MoDem, non tratta con gli ex socialisti, conquista Repubblicani. La sua audacia politica continua. E con essa aumentano le sue responsabilità.

Macron si avvia alle legislative dimostrando di non aver bisogno di nessuno per vincerle. Riduce l’apporto del MoDem di Bayrou, riuscendo ad ottenere una qualche diminuzione dei candidati di quest’ultimo (al prezzo della prima polemica del suo mandato); non accetta di trattare con gli ex-socialisti di Valls - un terzo del PS - proponendo solo una strategia di desistenza in alcuni collegi. Gli oltre 400 candidati già presentati da “La République En Marche” - nuovo nome del suo movimento - sono un misto di ex socialisti (ma scelti uno per uno), un centinaio di selezionati centristi ed ex repubblicani, con oltre la metà di nuove figure prese dalla società civile ed imprenditoriale.

 

Tale atteggiamento di sicurezza - che in molti gli sconsigliavano per timore della coabitazione - nasce da un’analisi del voto approfondita. Macron ha preso più del 43% sul totale dei potenziali elettori (compresi bianche, nulle e astenuti), ossia oltre 20 milioni di voti, una somma maggiore dei voti di Hollande nel 2012. Ma con questo calcolo la Le Pen arriva terza, preceduta dal partito del non voto (16 milioni) e con “solo” 10,5 milioni di voti (ossia il 22,4 dei voti sul totale degli iscritti). Già alcuni fan della candidata del Fronte, la accusano di aver “trasformato in piombo e non in oro tutto ciò che toccava”, come dichiara lo scrittore Eric Zemmour parlando di “fiasco integrale”.

 

Macron e i suoi sono ora convinti che i 16 milioni di elettori che non si sono espressi al secondo turno, non andranno in maggior parte né all’estrema destra, né saranno attratti - se non in modesta parte - dal “vecchio” (PS e LR). I socialisti già hanno detto che presenteranno candidati solo in 400 circoscrizioni elettorali su 577; alcune personalità - come Aubry, Hidalgo o Taubira - scommettono su nuovi movimenti (pur senza lasciare il partito, per ora); molti deputati uscenti si presenteranno alle elezioni sotto l’etichetta “PS-majorité presidentielle”, per segnalare l’adesione - pur da socialisti - al progetto macroniano.

 

Anche tra i Repubblicani si espande tale fenomeno: la divisione è venuta alla luce fin dalle prime ore, durante i commenti negli studi televisivi. Il ritiro di Fillon dalla guida del partito dopo il primo turno (e l’abbandono del suo programma giudicato troppo duro), ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile, soprattutto se si tiene conto delle lotte intestine e dei rancori degli ultimi anni. Se Macron sceglierà un primo ministro di centrodestra, sarà per i Repubblicani un duro colpo, che metterebbe a repentaglio la loro ambizione di contendere al Presidente la maggioranza dell’Assemblea. Il Front National certamente griderà vittoria se supererà i 30 seggio del 1986 (ma si votò con la proporzionale): troppo poco per poter incidere ma abbastanza per restare vivo. Prepariamoci ad una resa dei conti interna, come le (finte?) dimissioni di Marion Le Pen e quelle minacciate del n°2 Filippot (a causa dell’euro) lasciano intravvedere.

 

L’unica vera incognita è la performance della lista di Mélenchon, che nessuno sa ancora ben quantificare. L’ultima disputa con i comunisti non dovrebbe incidere sulle possibilità del fondatore della France Insoumise, ma il suo corpo elettorale è troppo variegato e complesso. Inoltre è rimasta una cattiva impressione (con strascichi polemici) per il fatto che non si sia voluto pronunciare contro l’estrema destra. Dipenderà molto dai candidati presentati. Per il neo inquilino dell’Eliseo, il “terzo e quarto” turno delle elezioni non saranno forse quel tallone d’Achille che in molti prevedevano. La sua audacia politica continua. E con essa aumentano le sue responsabilità.

*viceministro degli Esteri