Steve Bannon (foto LaPresse)

Dopo la guerra alla leadership morale, Trump cambia ancora. Il caso Bannon

Il rimpasto al consiglio di sicurezza è l’ennesima testimonianza di una gestione confusionaria che fatica terribilmente a cristallizzarsi in un metodo

New York. Steve Bannon è stato rimosso ieri dal Consiglio di sicurezza nazionale, dove aveva ottenuto, in modo irrituale, una posizione nel comitato permanente. La manovra a sorpresa avviene nel contesto di una riorganizzazione del consiglio di sicurezza autorizzata da Donald Trump e condotta dal consigliere H.R. McMaster, che sta riempiendo le molte caselle vuote dell’organigramma con figure dell’establishment conservatore. Lo spostamento di Bannon restituisce ruoli di primo piano al capo dell’esercito, Joseph Dunford, e al capo dell’intelligence, Dan Coates, messi ai margini del consiglio dall’ipetrofica presenza bannoniana.

 

La Casa Bianca s’è affrettata a smentire, attraverso funzionari anonimi, che si tratti di un demansionamento e ha lasciato accuratamente trapelare che il compito dello stratega al consiglio era quello di controllare e contenere l’erratico Michael Flynn, il consigliere per la sicurezza nazionale che Trump ha cacciato non tanto per i rapporti più che ambigui che teneva con il Cremlino, ma perché aveva tradito la fiducia non rivelando internamente i suoi contatti. Tolto di mezzo Flynn, il presidente ha appianato l’anomalia istituzionale.

 

Al di là dello spin della Casa Bianca, il rimpasto al consiglio di sicurezza è l’ennesima testimonianza di una gestione confusionaria che fatica terribilmente a cristallizzarsi in un metodo. Con le dichiarazioni sulla Siria fatte, fatte con un linguaggio più consono alla dottrina dell’intervento che a quella dell’isolamento, il presidente ha cambiato nuovamente postura dopo le ore e i giorni dei “sì, ma”. La consonanza fra Trump e l’ambasciatrice Nikki Haley, che al Consiglio di sicurezza dell’Onu mostrava le foto dei bambini uccisi con il gas, dicendo che “se l’Onu non interverrà, potremmo farlo noi” contraddice, almeno a parole, un pattern che iniziava a intravedersi. In questi giorni ad altissima tensione internazionale, stavano emergendo i tratti dell’atteggiamento di Trump verso il mondo, una postura vagamente coerente eretta sul principio della de-moralizzazione dell’America.

 

La “città sulla collina” tanto amata da Reagan non risplende più, la “nazione indispensabile” di Clinton si scopre superflua, l’eccezionalismo è una faccenda essenzialmente domestica. La metamorfosi da eccezionale avamposto del mondo libero a potenza guardinga e calcolatrice – una trasformazione a lungo promessa da Trump – si stava materializzando sullo sfondo dei dossier internazionali più roventi e frammentati. Prima di cambiare tono, Trump aveva risposto al terribile attacco chimico dell’esercito siriano accusando più Obama che Assad: “Queste azioni terribili del regime di Bashar el Assad sono conseguenze della debolezza e dell’indecisione della precedente amministrazione. Obama nel 2012 ha detto che avrebbe fissato come linea rossa l’uso delle armi chimiche, e non ha fatto nulla”, ha scritto la Casa Bianca, noncurante di ciò che lo stesso Trump aveva detto nel 2013, quando il regime siriano aveva per la prima volta violato la linea rossa: “Presidente Obama, non attacchi la Siria. Non ci sono vantaggi e ci sono tremendi svantaggi”. Ragiona nella logica cinica dei vantaggi e degli svantaggi il presidente che ha tolto dalla lista delle priorità la rimozione di Assad, poi dice che è un caso se questo, riconfermato nella sua impunità, bombarda i civili con il sarin e infine annuncia che ha “passato tutte le linee” e “ora la responsabilità è mia”. Il realismo calcolatore è l’essenza di un atteggiamento dichiarato, quell’“America First” che non si presenta nella forma rigida di un isolazionismo unilaterale, ma in quella fluida degli accordi intorno al polo dell’interesse strettamente inteso e del disinteresse verso la dimensione morale della leadership americana.

 

Sembravano lontanissimi i tempi in cui George W. Bush diceva che la Casa Bianca distingue i leader con cui dialogare sulla base di come trattano i propri popoli. Con al Sisi, accolto con più calore di Angela Merkel, non ha sfiorato il tema dei diritti umani, che sono scivolati fuori dall’agenda dell’incontro di oggi a Mar-a-lago con Xi Jinping, dove Trump vuole sapere cosa Pechino è disposta a fare per perimetrare la Corea del nord. E’ pur sempre il presidente che alla domanda sulle affinità con quell’ “assassino” di Putin, ha risposto: “E pensi che il nostro paese sia innocente?”. Ma è anche il presidente indecifrabile che nel giro di ventiquattro ore cambia pelle al consiglio di sicurezza nazionale e modifica il vocabolario sulla crisi siriana, mettendo in crisi l’impianto interpretativo che gli analisti avevano visto apparire nel caos primigenio dell’amministrazione.