La Corte è formata da 15 giudici, nominati da un comitato composto da tre giudici in carica, due membri del governo, due del Parlamento, e due rappresentanti dell’ordine degli avvocati

La giustizia secondo Israele

Giulio Napolitano

A Gerusalemme la Corte suprema è chiamata a sancire il delicato equilibrio tra sicurezza e diritti. Ed è il simbolo del lungo lavoro di cui ha bisogno l’occidente

Può diventare rabbino capo dell’esercito chi, richiamandosi all’interpretazione della Torah, aveva in passato rilasciato dichiarazioni ambigue sull’ammissibilità della violenza sessuale da parte dei soldati in tempo di guerra? E può la Corte suprema sospenderne la nomina alla vigilia della cerimonia di insediamento e convocare l’interessato per rendere chiarimenti? Può la Knesset approvare una legge che legalizza gli insediamenti non autorizzati su terreni di proprietà privata di palestinesi, aggirando così l’ordine di demolizione sancito dalla Corte suprema e sfidando le censure della comunità internazionale? In Israele, molte delle questioni che animano il dibattito pubblico e l’agenda politica assumono una rilevanza giuridica del tutto straordinaria e peculiare. Capita così facilmente che l’attualità irrompa nelle discussioni con gli studenti del corso di Comparative administrative law che ho tenuto alla Radzyner Law School dell’Interdisciplinary Center di Herzliya, la più importante università privata in Israele, molto attiva anche sul fronte della internazionalizzazione. Gli studenti, in realtà, non sono abituati a parlare e intervenire in aula. La lezione è ancora quella “frontale”, basata sull’esposizione della materia da parte del docente. Il metodo di insegnamento, anche nelle classi in lingua inglese, è dunque lontano da quello americano, incentrato sulla discussione critica di casi giurisprudenziali, al quale mi ero ispirato per preparare il corso. Eppure, mano a mano, i ragazzi prendono coraggio e si appassionano, portandosi dietro anche il ricco bagaglio di esperienze personali (quasi tutti hanno già servito per diversi anni nell’esercito).

Non a caso, nelle pause delle lezioni, quando cominciano a conversare con i dottorandi di ricerca venuti con me dall’Università di Roma Tre e dalla Scuola Sant’Anna di Pisa, si stupiscono della loro giovane età. Quando entriamo nel vivo del programma, gli studenti si interessano subito ai primi casi giurisprudenziali tedeschi e francesi sui rifugiati e sui campi profughi che ho selezionato. Sanno bene quanto sia delicato l’equilibrio tra esigenze di controllo dei flussi anche a tutela della sicurezza (una barriera protegge Israele dal confine con il Sinai egiziano), istanze umanitarie e politiche di immigrazione (lo Stato di Israele, d’altra parte, nacque anche grazie all’aggiramento delle quote d’ingresso fissate dal protettorato britannico sulla Palestina). Analizzano le diverse forme di esercizio dei poteri pubblici che emergono da alcune recenti sentenze della Corte europea di giustizia e della Corte suprema americana. Il dibattito si concentra soprattutto sulle ipotesi in cui funzioni pubbliche sono trasferite a soggetti ibridi, pubblico-privati, o a imprese operanti a scopo di lucro. Discutono quindi con passione la sentenza con cui la Corte suprema israeliana, nel 2009, ha dichiarato l’incostituzionalità della legge sulla privatizzazione delle prigioni, un vero e proprio leading case a livello mondiale. Alcuni ritengono la decisione della Corte frutto di un pregiudizio ideologico contro il privato, che finisce così per frustrare le esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tutela della sicurezza alla base dell’esperimento di privatizzazione. Altri, invece, elogiano la sensibilità della Corte per le istanze di protezione dei diritti umani dei detenuti.

La ragionevolezza della conclusione allora raggiunta dalla Corte, d’altra parte, appare oggi confermata dal bilancio critico sull’esperienza dei penitenziari privati recentemente stilato dall’amministrazione statunitense. Al termine dell’ultima lezione, molti ragazzi si fermano a salutarmi affettuosamente. Sono contenti di aver superato l’iniziale ritrosia e di aver approfondito anche gli argomenti apparentemente più lontani inseriti nel programma, come i controversi poteri del Consiglio di Stato in Belgio o l’ambito del sindacato giurisdizionale sulla sanzioni irrogate agli operatori finanziari a Singapore. Mi parlano dei loro prossimi corsi e impegni. Alcuni di loro si apprestano a svolgere un anno di esperienza professionale in studi legali, anche internazionali, o presso amministrazioni pubbliche e società private. Le questioni giuridiche in Israele, d’altra parte, sembrano avere una speciale intensità. A dirimerle è spesso chiamata la Corte suprema, formata da quindici giudici, nominati da un comitato di selezione composto da tre giudici in carica, due membri del governo, due del Parlamento, e due rappresentanti dell’ordine degli avvocati. Una volta nominati, i giudici restano in carica fino al compimento dei settant’anni. Si tratta di un disegno istituzionale particolarmente sofisticato, uno dei più avanzati al mondo nella capacità di proteggere l’indipendenza della Corte. Tanta cura per questi congegni giuridico-istituzionali si può forse meglio comprendere quando si visita il vicino Yad Vashem, il Centro per la Memoria della Shoah.

Di fronte alla raggelante visione delle schede relative alla diffusione a macchia d’olio delle leggi razziali negli anni Trenta in Germania e nel resto di Europa, al giurista viene spontaneo chiedersi se l’esistenza di più forti custodi della Costituzione avrebbe allora potuto impedire o quantomeno ostacolare il diffondersi di quel tragico e folle disegno criminale. Nel sistema giuridico israeliano, la Corte è chiamata a svolgere molteplici funzioni, sia come corte di ultima istanza nei giudizi civili, penali e amministrativi, sia come corte costituzionale. Particolarmente originale è la sua funzione di Alta corte di giustizia (Bagatz), che le consente di pronunciarsi sulla legittimità di qualsiasi decisione pubblica, anche laddove non sia prevista dall’ordinamento una specifica forma di ricorso. Ciò ha permesso alla Corte, in diversi periodi della sua storia, di svolgere un ruolo fondamentale nella protezione dei diritti umani, anche degli arabi e dei palestinesi nei Territori occupati, alla ricerca di un delicato equilibrio con le esigenze di tutela della sicurezza di Israele. Durante la visita nello splendido edificio moderno della Corte inaugurato nella città nuova di Gerusalemme nel 1992, si è colpiti dalla grande apertura degli spazi e dalla luce calda che penetra in ogni angolo dell’edificio con l’idea di rendere trasparente e accessibile a tutti l’amministrazione della giustizia. Quando entriamo in un’aula per assistere a una delle udienze programmate per la giornata, ci imbattiamo nella vigorosa arringa di un’avvocatessa araba, che difende dall’accusa di terrorismo il suo giovane assistito.

La giudice Daphne Barak-Erez, fino a qualche anno fa professoressa di Diritto pubblico (l’avevo conosciuta in occasione di una conferenza internazionale negli Stati Uniti), ci riceve nel suo moderno e accogliente studio. Questa settimana è di turno per assumere i provvedimenti di urgenza e quelli di carattere organizzativo in attesa della riunione dei collegi giudicanti. E’ stata il più giovane giudice nominato alla Corte (nel 2012, quando aveva 47 anni). La sua designazione fu accolta con grande favore, per il suo prestigio accademico e per l’assenza di affiliazioni politiche. Dopo aver servito nell’ufficio giuridico dell’esercito, Daphne Barak-Erez ha avuto una lunga e brillante carriera accademica, fino a diventare preside della Facoltà di Giurisprudenza a Tel Aviv. Ci dice che, dopo vent’anni passati a insegnare e fare ricerche anche all’estero, si sentiva pronta per dedicarne altrettanti all’attività di giudice presso la Corte. Racconta di aver imparato molto dai suoi colleghi nei primi anni di mandato e sottolinea l’importanza del rapporto umano tra persone destinate a spendere così tanti anni insieme (un po’ come avviene nella Corte suprema americana). Nel tempo, farà parte di collegi giudicanti che, inevitabilmente, saranno di diverso orientamento e sensibilità. Già a breve scadrà il mandato di tre giudici. E in futuro non possono escludersi cambiamenti anche nelle procedure di nomina o nelle funzioni: alcuni intendimenti in tal senso sono stati annunciati dal ministro della Giustizia. Lei ci tiene a sottolineare l’importanza di evitare qualsiasi influenza politica nei giudizi. E ci spiega le ragioni dell’originale apertura della Corte alla comparazione giuridica, dovuta al carattere composito dell’ordinamento israeliano e alla formazione spesso internazionale di giudici e avvocati.

Il ruolo così importante assunto dalla Corte, cui gli stessi partiti possono rivolgersi direttamente per cercare di fermare leggi e decisioni, è oggi la conseguenza anche di un sistema politico per molti versi bloccato, senza autentiche alternative di governo. La scena è dominata dalla personalità carismatica di Netanyahu. L’elezione di Trump (accolta da grandi manifesti con la scritta “make Israel great again”) potrebbe rafforzarne la posizione anche a livello internazionale. La sua figura è talora sfiorata da scandali (l’ultimo riguarda il controverso acquisto di mezzi sommergibili per la difesa) e spesso da critiche. Alcuni giornali ne contestano anche la gestione della recente emergenza degli incendi, in parte di matrice dolosa, probabilmente terroristica, divampati ad Haifa e nel resto del paese. Proprio il fatto che gli incendi siano stati alla fine domati anche grazie alla solidarietà, tra gli altri, di Stati Uniti, Russia, Grecia, Italia e persino dell’Autorità palestinese, che hanno mandato tempestivamente i loro mezzi di soccorso, restituisce però un’immagine meno isolata di Israele e del suo governo di quanto a volte si può pensare. Il successo, non solo economico, di Israele, d’altra parte, è sotto gli occhi di tutti. Il livello di crescita del pil si mantiene alto, mentre il tasso di disoccupazione è contenuto. Elevata è anche la natalità, seppure in misura diversa nei vari settori della società e con rischi di crescenti squilibri demografici. I ragazzi fanno figli anche se sono ancora all’università e non hanno un lavoro. Il boom immobiliare, soprattutto a Tel Aviv, continua, insieme alla crescita delle attività finanziarie. La politica di sviluppo verso il Negev prosegue in nuove forme. L’insediamento dei kibbutz lascia il posto a stabilimenti industriali all’avanguardia. La città di Be’er Sheva diventa sempre più grande e popolata.

L’immagine della start-up nation, oggetto anche di un fortunato best-seller, descrive bene lo sguardo continuamente rivolto al futuro e all’innovazione tecnologica. La galleria di eccellenze nel campo tecnico e scientifico che saluta i passeggeri all’aeroporto, d’altra parte, è impressionante. Tra le applicazioni più significative vi sono quelle nel campo della sicurezza e della Difesa, come conferma l’imponente conferenza sulla cyber-security che raccoglie ogni anno a Tel Aviv esperti e imprese di tutto il mondo. Anche l’Italia potrebbe trarre notevole vantaggio dallo sviluppo di una start-up region nell’intero Mediterraneo, come sottolinea il nostro ambasciatore, Francesco Maria Talò, in un appassionato incontro con gli studenti in università, riprendendo un’intuizione emersa anche nei frequenti colloqui tra esponenti di governo e mondo scientifico di Italia e Israele. Girando per il paese, al visitatore esterno la qualità della vita, soprattutto nelle città maggiori, appare elevata. Il discorso vale naturalmente per la sempre più vitale Tel Aviv, dove prosegue il recupero dei palazzi Bauhaus insieme alla costruzione di nuovi grattacieli. I ragazzi affollano bar, ristoranti, locali, musei. Fanno jogging sul lungomare completamente rinnovato e adibito a grande spazio pubblico. Si tuffano nell’acqua pulita o la solcano con i loro surf scintillanti. Ma anche percorrere i diversi quartieri della città vecchia di Gerusalemme restituisce sul piano umano, insieme alle emozioni indescrivibili del Muro occidentale e del Santo Sepolcro, l’idea di una convivenza difficile, ma possibile, tra arabi ed ebrei. L’esistenza di telecamere nascoste si percepisce soltanto tornando più volte nei luoghi, quando si alza lo sguardo dalla vita che brulica attorno alle baracche dei piccoli negozi. Non mancano controlli e perquisizioni da parte dei giovani soldati, ai quali gli arabi si sottopongono con pazienza, sotto gli occhi dei turisti. Durante lo shabbat, i ragazzi intonano canti e cori religiosi lungo le strade che li conducono verso la preghiera.

I problemi, tuttavia, non mancano. Come mi dice Chemi Peres, un affermato manager nel settore tecnologico, appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti per ringraziare gli amici americani che hanno voluto onorare la figura del padre recentemente scomparso, c’è ancora the big elephant in the room. Lo stallo del negoziato con i palestinesi è totale. E non si sa cosa potrà accadere quando la leadership moderata di Abu Mazen passerà la mano. Il Centro Peres per la pace, la cui meravigliosa sede progettata da Fuksas si affaccia sul mare a sud di Jaffa, svolge un ruolo fondamentale nel tenere aperti i contatti tra palestinesi e israeliani. Una delle attività più importanti ed encomiabili è il programma di assistenza sanitaria negli ospedali israeliani in favore dei bambini che non possono essere adeguatamente curati nelle ben più arretrate strutture dei Territori. Molto interessante è anche il progetto che mira a ridurre le barriere che ostacolano il commercio dei prodotti palestinesi, il cui rilancio potrebbe essere prezioso per migliorare le condizioni economiche della popolazione. Si tratta, tuttavia, di iniziative che rischiano di rimanere isolate senza un cambiamento significativo dell’agenda politica. La società israeliana, d’altra parte, appare sempre più divisa al suo interno. Le diseguaglianze economiche e sociali sono crescenti, nonostante l’apparente egualitarismo che circonda l’immediatezza e l’informalità dei rapporti umani. Si avverte il ritardo nello sviluppo di alcune infrastrutture, soprattutto nel settore del trasporto ferroviario. In diverse condizioni di contesto, i flussi turistici in luoghi così belli e stupefacenti potrebbero essere ben più consistenti. La macchina burocratica non sempre è efficiente. Lo segnala anche la governatrice della Banca di Israele commentando i dati emergenti dall’annuale rapporto Doing Business della Banca mondiale. Per suffragare la sua denuncia, con la concretezza tipica che contraddistingue l’approccio anche di chi ricopre alte cariche, la governatrice cita con minuzioso dettaglio la quantità di adempimenti e i costi che ha dovuto recentemente sostenere un vecchio kibbutz nel Negev quando ha cercato di riaprire le sue attività grazie a un nuovo finanziamento.

Ma ciò che più preoccupa è il crescente conflitto politico e ideologico. Il paese è diviso in almeno quattro fazioni. Le componenti laiche, progressiste e moderate, che diedero un contributo fondamentale alla costruzione dello Stato, appaiono sempre più in difficoltà. I partiti tradizionali, soprattutto quello laburista, sono in crisi. Le formazioni politiche sorte negli ultimi vent’anni appaiono spesso effimere. Gli esecutivi rimangono precari e instabili. Ed emerge la contrapposizione tra elementi del governo in carica e l’esercito, portatore dalla visione laica propria dei fondatori dello Stato. Si tratta di tensioni e contraddizioni che colpiscono particolarmente il visitatore esterno, il quale, al suo arrivo, non può che rimanere impressionato dalla straordinaria capacità di narrazione del processo di nation building che si ritrova ovunque nel paese, ad esempio visitando la casa di Ben Gurion a Tel Aviv, il suo kibbutz nel Negev, e lo Yad Vashem a Gerusalemme. Oggi gli antichi equilibri appaiono in pericolo, nonostante il tentativo da parte del Presidente Rivlin di mantenere un tessuto unitario nel discorso pubblico, ad esempio quando ha recentemente reso un sincero e autocritico omaggio postumo alla figura di Rabin. Eppure, come sottolinea Chemi Peres, se si ragionasse nel merito delle cose da fare, sulle politiche necessarie nell’interesse nazionale, sulle iniziative da assumere sul fronte della sicurezza e nel dialogo con la Palestina, sugli sviluppi delle relazioni internazionali (non solo negli storici e consolidati rapporti con gli Stati Uniti, ma anche creando nuovi ponti verso l’India e l’Africa), sarebbe ancora possibile trovare un consenso ampio nel paese e unire le persone di buona volontà, che continuano a guardare con energia e fiducia al futuro. Una considerazione che vale, forse, non solo per Israele.

Giulio Napolitano è ordinario di Diritto amministrativo All’Università Roma Tre

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