Un particolare della copertina di Bloomberg Businessweek, nell'edizione mediorientale, che mostra "fusi" in un unico volto quelli di Clinton e Trump

Gli americani e il mondo

Sfida da copertina: al medio oriente importa chi c'è alla Casa Bianca?

Paola Peduzzi
Sulla copertina dell’edizione mediorientale di Bloomberg Businessweek c’è un’immagine piuttosto raccapricciante, un “mashup” di Donald Trump e Hillary Clinton dall’effetto mostruoso, con il titolo: “President Whoever”, che lancia il senso dell’operazione editoriale.

Milano. Sulla copertina dell’edizione mediorientale di Bloomberg Businessweek c’è un’immagine piuttosto raccapricciante, un “mashup” di Donald Trump e Hillary Clinton dall’effetto mostruoso, con il titolo: “President Whoever”, che lancia il senso dell’operazione editoriale: per il medio oriente cambia davvero qualcosa se ad andare alla Casa Bianca è Trump o è Hillary? La risposta comune è un fragoroso sì!, ma nell’articolo che accompagna la copertina, l’autore, Steven A. Cook, non pare altrettanto convinto. Cook si occupa di medio oriente al Council on Foreign Relations, ha scritto saggi sull’Egitto e sulla Turchia, ne ha uno in uscita per la primavera del prossimo anno dal titolo “False Dawn: Protest, Democracy, and Violence in the New Middle East”, scrive un blog sull’impatto della politica estera americana nelle dinamiche mediorientali. Nell’articolo su Bloomberg Businessweek, Cook spiega che l’approccio dei due candidati è certamente diverso, che quel che dicono sulla Siria o sullo Stato islamico o sulla Russia – lo hanno fatto nei dibattiti, l’ultimo, il terzo, è previsto per questa sera a Las Vegas – è differente e può essere utile agli elettori per comprenderne la “leadership” e la “credibilità”, “ma sarebbe meglio – scrive Cook – che i due candidati dicessero quel che è possibile fare in medio oriente, e quel che non lo è”. Ciò che si dice in campagna elettorale vale soltanto per prendere voti, il governo è un’altra cosa, e per questo Cook suggerisce un approccio minimalista, o realista, perché gli Stati Uniti “non hanno la capacità di determinare eventi politici nei paesi impegnati in scontri sull’identità, sul nazionalismo, e sulla religione”.

 

Cook sostiene che il prossimo presidente dovrebbe tornare ai “basic” del medio oriente, “modellare una politica attorno agli interessi principali di Washington – il flusso di risorse energetiche dai paesi del Golfo, la sicurezza di Israele, prevenire che un unico paese abbia un dominio sulla regione (fatta eccezione per gli Stati Uniti), la non proliferazione di armi di distruzione di massa, l’antiterrorismo”. L’elenco dei “basic” è invero molto articolato: su questi elementi cosiddetti “minimalisti” le differenze tra Hillary e Trump sono evidenti. Un esempio: la candidata democratica ha proposto una “no-fly zone” in Siria, ipotesi che ha fatto molto discutere gli esperti in termini di fattibilità concreta e di tempi: quando a gennaio si insedierà il prossimo presidente, Aleppo potrebbe essere già caduta e gli equilibri nel nord della Siria potrebbero essere molto diversi da quelli di oggi. Al contrario, il candidato repubblicano auspica un’alleanza sempre più stretta ed esclusiva con la Russia di Vladimir Putin per combattere e distruggere assieme lo Stato islamico. Gli approcci sono opposti, ma Cook scrive che “la Siria è perduta e agli Stati Uniti non resta che fare l’unica cosa rimasta: aiutare gli alleati in Europa, la Turchia e la Giordania a gestire il collasso”.

 

Molte fonti mediorientali spiegano che l’attesa per l’esito delle elezioni americane è alta e che le conseguenze di una vittoria di Trump o di Hillary sono diverse: l’imprevedibilità del candidato repubblicano non genera consenso, pure se il profilo interventista della candidata democratica non è sempre gradito (sarà guerra permanente, dicono i suoi detrattori). Semmai quel che è in discussione, sulla cover di Bloomberg Businessweek e tra gli esperti, è il ruolo dell’America nel mondo, ora che, dopo gli effetti della superpotenza dell’epoca Bush si sono sperimentati gli effetti dell’inerzia dell’epoca Obama. I declinisti sono convinti che l’influenza degli Stati Uniti nel mondo si sia ridotta e che difficilmente sarà restaurabile nel breve termine – gli isolazionisti ne sono contenti, gli interventisti sono ormai ignorati. Ma come scriveva martedì il New York Times, il test più importante oggi è in corso nella battaglia a Mosul: “Non soltanto i combattimenti dei prossimi giorni e settimane, ma la ricostruzione della città dopo contribuiranno a definire l’eredità di Obama come un leader di guerra che ha cercato di togliere gli Stati Uniti dalla linea del fronte della guerra antiterrorismo”. E’ da qui che ripartirà il prossimo presidente, e per quanto sia grande il pessimismo, misto ad antioccidentalismo, sulle capacità della leadership americana, c’è una bella differenza tra Hillary e Trump.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi