Forze di sicurezza giordane (foto LaPresse)

Tira brutta aria in Giordania per il caso Hattar

Daniele Raineri
L'omicidio dello scrittore appartenente alla comunità cristiana e di sinistra della Giordania da parte di un predicatore giordano appena tornato da un pellegrinaggio in Arabia Saudita scopre la posizione ambigua del paese su almeno due fronti. Ecco quali.

Roma. Domenica mattina un predicatore giordano appena tornato da un pellegrinaggio in Arabia Saudita, Riyad Ismail Abdullah, di 49 anni, ha ucciso a pistolettate uno scrittore famoso e appartenente alla comunità cristiana e di sinistra della Giordania, Nahed Hattar. L’omicidio è avvenuto sulle scale del tribunale della capitale, dove Hattar era stato convocato per difendersi in un caso penale di blasfemia: lo scrittore era stato arrestato ad agosto per avere pubblicato su Facebook una vignetta non sua che illustrava, secondo il suo commento, “il Dio dello Stato islamico”. Nel disegno Allah chiede con fare sollecito e servizievole a un estremista se ha bisogno di qualcosa, e ne ottiene indietro una risposta sprezzante, da padrone a servo, come se la gerarchia delle cose fosse rovesciata e – è il significato della vignetta – gli estremisti usassero Dio per i loro scopi, invece che servirlo come proclamano. Hattar era stato liberato su cauzione dopo due settimane e aspettava il processo, ma l’arresto aveva attirato su di lui l’attenzione sgradita dei fanatici. E’ il primo intellettuale in tempi recenti a essere ucciso in Giordania per le sue idee.

 

La morte di Hattar scopre la posizione ambigua della Giordania su almeno due fronti. Come molti cristiani del suo paese, anche lo scrittore era schierato con il presidente siriano Bashar el Assad, nella guerra civile che infuria nel paese confinante. Il governo della Giordania ha una posizione decisamente filo occidentale e anti estremisti tra i paesi arabi, ospita le basi di droni americani che sorvolano la Siria – e anche la Libia –, partecipa ai programmi segreti intrapresi dall’America e dalla Gran Bretagna per addestrare ribelli siriani da impiegare contro lo Stato islamico e ha una posizione netta contro Abu Bakr al Baghdadi. Quando nel gennaio 2015 lo Stato islamico uccise un pilota giordano catturato, re Abdallah lanciò di persona una campagna aerea di rappresaglia militare contro la città di Raqqa senza pari nel mondo arabo. Tuttavia nei riguardi di Assad il paese vive in uno strano stato di sospensione: il governo sponsorizza assieme agli occidentali un comando ribelle (conosciuto con la sua sigla in inglese, Moc, che sta per Military Operations Center) che controlla l’intero fronte a sud della capitale Damasco, ma da mesi ha imposto agli uomini un tacito ordine di congelamento delle operazioni. In questo momento, il fronte meridionale è il più tranquillo della Siria, cosa che i ribelli a nord – impegnati in campagne violente a Hama e Aleppo – rinfacciano ogni giorno ai compagni del sud. Quando Hattar andava in televisione, ricordava che è difficile tenersi neutri in un conflitto che si consuma appena oltre il confine e trovava consensi tra i giordani che si sentono minacciati dalla pressione dei profughi siriani.  

 

Il secondo fronte è quello del rapporto tra l’élite morbida di Amman, aperta e pronta al compromesso geopolitico (per esempio: c’è un’ambasciata israeliana nella capitale) e la rigidità dell’islam al di fuori della città. Re Abdallah e la regina Rania nel gennaio 2015 arrivarono a Parigi per marciare in memoria di Charlie Hebdo con altri capi di stato ma il loro esempio di tolleranza fa meno presa di quanto vorrebbero. In questi giorni ci sono state pubbliche discussioni tra i clan conservatori sull’opportunità o no di fare le condoglianze alla famiglia del cristiano Hattar, perdipiù ucciso mentre era coinvolto in un caso di blasfemia. Su social media ci sono stati casi di esultanza, ed è chiaro che il paese non è all’unanimità dalla parte dello scrittore, e che anzi qualcuno considera il suo assassino un eroe. Il coro dei simpatizzanti dello Stato islamico ne ha approfittato per alzare il volume e farsi sentire di più. Il regno non ha reagito in modo univoco, e anzi il caso sta tracciando linee di separazione tra chi condanna e chi approva – sono linee che esistevano anche prima, ma non erano così esplicite.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)