Rifugiati siriani all'ultimo check point di Mabrouka, in Siria, prima di raggiungere Raqqa (foto LaPresse)

Come è andato il "patto di protezione" che Baghdadi offrì ai cristiani di Raqqa

Daniele Raineri
Due anni fa il califfo firmò un editto in cui spiegava ai cristiani le regole da rispettare per avere salva la vita. Oggi però sono quasi tutti in fuga dalla città

L’attenzione dei media è arrivata in ritardo sullo Stato islamico, più o meno durante la caduta di Mosul in Iraq, ma ci sono fatti e documenti precedenti che meritano di essere raccontati. Un esempio chiaro è il patto stretto tra il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, e i cristiani di Raqqa, in Siria, nel febbraio 2014. Un minimo di contesto: all’epoca i gruppi armati siriani avevano cacciato lo Stato islamico dal nord-ovest del paese, ma il gruppo era riuscito ad attestarsi nella città di Raqqa, a est, verso il confine iracheno. La zona garantiva una certa sicurezza e a gennaio al Baghdadi era stato visto dirigere la preghiera in pubblico assieme ai suoi combattenti – come farà di nuovo a luglio, questa volta davanti alle telecamere. Il suo controllo su Raqqa era completo, com’è ancora oggi. A febbraio Baghdadi firmò un editto in cui spiegava ai cristiani locali il patto di sottomissione da rispettare per avere salva la vita, le proprietà, le chiese e continuare a esercitare il culto. Interessante notare che il testo è firmato con il titolo “comandante dei credenti”, che è una qualifica che fa capire cosa avrebbe fatto di lì a cinque mesi, ovvero proclamare il ritorno del Califfato nella storia.

 

Baghdadi offre incolumità ai cristiani e in cambio impone queste condizioni: non devono costruire in città o in periferia nuove chiese o monasteri o eremitaggi per monaci e non devono ristrutturare gli edifici caduti in rovina; non devono mostrare la croce o qualsiasi delle loro scritture nelle strade e nei mercati dei musulmani (quindi, all’aperto); non devono farsi sentire dai musulmani durante la lettura delle loro scritture, e lo stesso vale per le campane, “anche suonate dentro le chiese”; non devono commettere atti ostili contro lo Stato islamico, incluso l’aiuto dei nemici, e se venissero a conoscenza di un piano contro lo Stato islamico devono subito riferire; non possono fare un qualsiasi gesto religioso all’esterno delle chiese; non possono fermare un cristiano se vuole convertirsi all’islam; non possono portare armi; non possono bere vino in pubblico e non possono vendere vino o carne di maiale ai musulmani o nei loro mercati; devono avere cimiteri separati; devono accettare i precetti imposti dallo Stato islamico in materia di modestia degli abiti e altro. Il punto più importante di questo patto di protezione, in arabo dhimma, è il pagamento della jizya, la tassa, che corrisponde a circa 16 grammi di oro per ogni maschio adulto di ciascuna famiglia e deve essere versata in due appuntamenti annuali.

 

Ogni cristiano di Raqqa ha quindi ricevuto un lasciapassare dello Stato islamico che attesta la sua condizione. Il ricercatore britannico che per primo tradusse il documento, Aymenn Jawad al Tamimi, nota che non si trattò di una mossa a sorpresa da parte di Baghdadi, perché c’è un’ampia letteratura nella teologia islamica classica su questi accordi e anche perché lo Stato islamico aveva già imposto la protezione ai cristiani in alcune aree che controllava durante la guerra in Iraq, per esempio nel 2007 nel quartiere al Dora di Baghdad e nel nord del paese (quando Baghdadi era emiro della zona di Mosul, per esempio). Due anni dopo, alla fine di marzo 2016, lo Stato islamico ha emesso un nuovo editto che vieta ai cristiani di lasciare Raqqa, e di fatto li rende prigionieri della città. Secondo i dati degli attivisti locali, delle millecinquecento famiglie cristiane “protette” dal primo editto di Baghdadi nel febbraio 2014 oggi ne sono rimaste 43.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)