Hillary Clinton (foto LaPresse)

Hillary usa argomenti conservatori per fermare il “folle” Trump

Il discorso che poteva essere pronunciato da Rubio cementa la sua posizione nella tradizione di Reagan e Bush.

New York. Il discorso di politica estera “comparata” che Hillary Clinton ha tenuto giovedì a San Diego contiene vari messaggi e diversi livelli di lettura. Il più immediato e riconoscibile si può sintetizzare così: Donald Trump è un pazzo pericoloso. E’ “impreparato”, “caratterialmente inadeguato” per il ruolo di commander in chief, il suo approccio ondivago e permaloso “rafforza lo Stato islamico”, il lancio di una “guerra nucleare” o di una “invasione di terra” sono “possibilità concrete” se a novembre il candidato repubblicano sarà eletto alla Casa Bianca. Dire che ha idee “pericolosamente incoerenti” significa esagerarne il valore, perché “non sono nemmeno idee, ma una serie di invettive bizzarre, attacchi personali e bugie esplicite”. “Lascio spiegare agli psichiatri la sua affezione per i tiranni”, ha detto Hillary. La candidata democratica descrive Trump innanzitutto come un caso clinico, una persona disturbata che non ha i requisiti minimi d’idoneità per il ruolo, simbolico e tremendamente potente, di leader del mondo libero. Questa linea d’attacco che valuta il “character”, i tratti della personalità, prima delle posizioni politiche è condiviso da molti, anche a destra. Bill Kristol, direttore del Weekly Standard e irriducibile fra gli irriducibili antagonisti di Trump, mette il carattere al di sopra di ogni altra obiezione. Così faceva anche lo speaker della Camera, Paul Ryan, prima di discutere con il candidato di questioni politiche e arrivare al più imbarazzato degli endorsement, twittato guarda caso mentre Hillary faceva fuoco e fiamme in California. Karl Rove lo ha definito un “idiota totale” prima di incontrarlo in segreto per parlare, presumibilmente, di affari.

 

L’argomento dell’inadeguatezza trumpiana è dunque il più immediato e facile da afferrare (anche perché Trump fa ben poco per smentirlo) ma allo stesso tempo è quello meno efficace per coinvolgere gli indecisi. Il discorso di Hillary, pronunciato con il tono fermo e la gravitas di chi è chiamato dal destino a fermare la tirannide, rafforza le convinzioni di chi già era convinto della malevolenza e dell’incapacità strutturale, perfino clinica, di Trump, e l’assunto degli strateghi della candidata è che a novembre per vincere sarà sufficiente portare alle urne gli elettori che hanno già un’inclinazione negativa verso di lui, principalmente per questioni di “character”. Gli altri, quelli che per qualunque ragione sono avvinti da Trump, non sono evidentemente sensibili alla critica di taglio psichiatrico. Sulla New York Review of Books, Charles Kessler ha osservato che a livello pubblico “i vizi di Trump sono stati esaustivamente condannati, ma mai esaminati in una prospettiva comparativa”, e così agli occhi degli ammiratori le tre nozze del candidato non sono peggiori delle avventure extraconiugali di John Fitzgerald Kennedy o Bill Clinton, le esagerazioni retoriche lo affratellano a Lyndon Johnson, le pulsioni violente non s’avvicinano nemmeno a quelle di Andrew Jackson, fondatore del Partito democratico che dopo avere ordinato esecuzioni sommarie in battaglia ha ucciso in duello una persona per una disputa legata a una scommessa sui cavalli. Erano altri tempi, si dirà, ma pure il coevo Tocqueville era schifato in presa diretta dal “character” del primo presidente democratico.

 

Il secondo livello di lettura del discorso di Hillary è politico, anzi è un passo prima della politica, perché ha a che fare con la visione del mondo che informa le decisioni politiche strettamente intese. Su questo, Hillary e Trump non potrebbero essere più lontani. A San Diego, Hillary non ha detto nulla che non si sapesse già, non ha esibito nuove posizioni, ma ha svolto in modo potente, rimarcando i contrasti con l’avversario, l’internazionalismo liberal che discende da una visione eccezionalista degli Stati Uniti: “Credo con tutto il cuore che l’America sia un paese eccezionale, siamo ancora, per usare le parole di Lincoln, l’ultima e migliore speranza del mondo. Non siamo un paese che si difende dietro a muri. Noi guidiamo con i nostri obiettivi, e vinciamo. E se l’America non guida, lascia un vuoto, che genererà caos oppure sarà riempito da altri paesi. E allora saranno loro a prendere decisioni che riguardano le vostre vite, i posti di lavoro, la sicurezza, e fidatevi di me, le loro scelte non andranno a vostro beneficio”. Questa visione di politica estera in cui l’immagine evangelica della “città sulla collina” cara a Reagan è sostituita da quella dall’aereo del dipartimento di stato che porta il nome dell’America nel mondo (rappresenta “la libertà e la speranza”) è perfettamente sovrapponibile a quella che ha animato i conservatori dal dopoguerra in poi, e con particolare chiarezza nell’era Reagan-Bush. La sorgente è la stessa: “L’America è eccezionale non perché è unica ma perché è diventata la ‘nazione universale’”, come scriveva Samuel Huntington. Non c’è stato interprete più risoluto e fattivo di questa dottrina di George W. Bush.

 

Come ha osservato John Podhoretz: “Con alcune piccole modifiche qui e là, questo poteva essere un discorso di Marco Rubio. Era diversi passi più a destra di Barack Obama”, ha scritto sulla rivista Commentary, notando che una certa assertività nel riaffermare la leadership americana stride con otto anni di grandi ideali proclamati e grandi calcoli praticati. Hillary si è spostata a destra non per andare a intercettare l’elettorato repubblicano ma per mettere in luce le contraddizioni dell’establishment di destra che si sta allineando con la prospettiva nazionalista di Trump, mentre a rigore dovrebbe sostenere le posizioni di Hillary sulla politica estera, almeno nei suoi tratti essenziali. La dicotomia fra due concezioni di America è creata ad arte per esaltare il paradosso: “Queste elezioni sono una scelta fra due visioni molto diverse dell’America. Una è arrabbiata, impaurita, basata sull’idea che l’America è debole e in declino. L’altra è speranzosa, generosa, e ha fiducia nel fatto che l’America è grande, com’è sempre stata”. Ed è anche più che grande: è eccezionale, universale.