Nicolas Sarkozy e Alain Juppé nel 2015 (foto LaPresse)

Chi è il più liberale tra noi? L'ultima sfida nella destra francese

Mauro Zanon
Il saggio di Juppé, la proposta referendaria di Le Maire, i posizionamenti di Sarkò e il libro sull’anima della droit.

Parigi. In Francia, sulla riforma del lavoro, si sta consumando probabilmente il più grande scontro di idee interno alla gauche dalla nascita della Quinta Repubblica. La sinistra giacobina accusa il governo di “deriva neoliberale” per aver utilizzato il “supecanguro” 49.3, il premier Manuel Valls si intesta le battaglie più scomode per rivendicarsi come il solo e autentico riformista della gauche, e il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, avanza disinvolto nel suo progetto di superamento dei vecchi schemi partitici. A destra intanto c’è agitazione attorno al nome che rappresenterà i Républicains, l’Udi e il Modem alle presidenziali del prossimo anno, c’è il solito tutti contro tutti con l’abituale dose di veleni, cattiverie e tradimenti in potenza in vista delle primarie di novembre, e c’è una domanda che assilla giornali e osservatori francesi: come sarà la destra che verrà?
Il gran favorito Alain Juppé e l’outsider Bruno Le Maire hanno provato a rispondere lunedì con due interventi pubblicati sul Monde, esponendo una nuova visione dell’Europa da destra.

 


Alain Juppé (foto LaPresse)


 

Per Juppé “nessuna nuova partenza è possibile senza un sussulto comune di Francia e Germania”, la Francia deve ritrovare la sua “relazione privilegiata con la Germania” e saper dire “no a Washington, Pechino, Ankara o Mosca” per tornare a essere leader. Posizione, quest’ultima, condivisa da Le Maire, che però si spinge ancora più in là: “Se sarò eletto presidente della Repubblica nel 2017, sarà organizzato un referendum nel corso del quinquennato sulle modifiche dei trattati necessarie ai nuovi orientamenti europei”. Un “renouveau européen”, come lo ha definito, che possa “ricucire la ferita del no al referendum del 2005”, quando il popolo francese si oppose alla ratifica del Trattato costituzionale dell’Europa.

 

Accanto al tema Europa, che è prioritario, c’è la grande questione delle idee che la destra francese difenderà per prendersi l’Eliseo nel 2017. Idee che i tredici candidati alle primarie di novembre hanno disseminato nei loro altrettanti libri-programma, un classico della politica francese, e hanno un comune denominatore: il liberalismo. L’Huffington Post francese ha scritto ieri che c’è unanimità a destra per una “primavera liberale”, il Monde, più perfidamente, ha parlato di “surenchère liberale”, di una specie di gara tra candidati a chi è più liberale dell’altro. Ma sta di fatto che tutti sono d’accordo nel promuovere riforme profonde del modello sociale: soppressione dell’Isf, l’Imposta di solidarietà sul patrimonio, addio alle 35 ore per passare a 39, aumento dell’età pensionabile da 62 a 65, snellimento della burocrazia, facilitazione dei licenziamenti economici e più flessibilità nel mercato del lavoro.

 

Le sfide economico-sociali sono nodali per un candidato alle presidenziali – Alain Juppé ha pubblicato ieri il suo terzo libro-programma, “Cinq pour l’emploi”, contenente le ricette liberali di cui la Francia ha bisogno per risollevarsi – ma la destra dimentica spesso l’importanza delle questioni culturali e intellettuali. In “L’Âme française” (Albin Michel) l’intellettuale conservatore Denis Tillinac scrive che la destra francese ha bisogno di riscoprire le sue radici spirituali, intellettuali, morali ed estetiche per tornare a essere protagonista. Per troppo tempo la droite si è ripiegata su se stessa, limitandosi a parare i colpi di una sinistra intellettuale arrogante e lasciando ai suoi avversari i campi universitari e letterari. Ha contribuito al proprio isolamento perché “ha dimenticato l’anima francese”, i suoi padri e i suoi valori che sono per Tillinac all’origine dei più bei momenti della storia di Francia: il patriottismo, il senso dell’onore, l’obbedienza, l’autorità, la fedeltà, la trasmissione. Nel Pantheon dell’intellettuale cattolico che due anni fa pubblicò un delizioso pamphlet sul piacere di essere reazionario (“Du bonheur d'être réac”), ci sono nomi altisonanti come Chateubriand, Tocqueville e Bernanos, ma anche eroi dei romanzi che hanno fatto la storia di Francia e le cui caratteristiche si avvicinano alla sua famiglia di idee: i tre moschettieri e il loro “galoppo spensierato e passionale dove la ricerca di un assoluto si accompagna a desideri più carnali”; il Cyrano de Bergerac e il suo “oblio di sé, l’insolenza, l’apologia della femminilità, la sottomissione stoica agli scherzi del destino”; Arsène Lupin, “eroe reazionario che coltiva il rimpianto di un aristocraticismo tanto immaginario quanto quello dei Germantes di Proust”.

 

Per Tillinac non è vero che le categorie destra e sinistra non esistono più, sbagliano o non hanno una buona memoria quelli che proclamano quotidianamente la fine dello storico clivage destra-sinistra. “La storia propone alla destra francese l’alba di una nuova avventura”, scrive l’autore del “Dictionnaire amoureux du catholicisme”. L’avventura “fallirà” se chi si rivendica come appartenente a quella famiglia politica non ricorderà che il “vero Pantheon della droite è la cripta di Saint-Denis”, dove re Luigi XVIII fece inumare le ossa dei sovrani di Francia che erano stato disperse durante la Rivoluzione francese. Per tutto ciò, “L’Âme française” è un appello alla destra negollista, di cui peraltro Tillinac ha fatto parte negli anni Novanta, prima come consigliere politico di Jacques Chirac, poi come principale sostenitore, tra i chiracchiani, dell’allora outsider Nicolas Sarkozy. Oggi, l’ex presidente della Repubblica ha altre priorità, come quella di contenere l’ascesa di Juppé che tutti i sondaggi danno come favorito alle primarie di partito. Ma anche Sarko, che nel suo ultimo libro, “La France pour la vie” (Plon), ha giurato amore eterno alla Francia, sa che la battaglia più importante sarà quella culturale e intellettuale, preliminare a quella politica.